Elenco blog personale

giovedì 23 aprile 2020

Tour de France 1989: LeMond e Fignon. Il romanzo di due campioni leggendari e di una rivalità unica

Il Tour più bello e avvincente, cui mi sia capitato di assistere, resta quello del 1989. Al via, il grande favorito era il beniamino di casa Laurent Fignon, il professore, così detto per via di occhialini dalla montatura dorata che gli conferivano un'aria molto seria. Fignon era tornato competitivo nelle gare tappe proprio al Giro d'Italia appena vinto su Flavio Giupponi.
Laurent Fignon
Talento precoce, aveva già conquistato, nel 1983 e nel 1984 due Tour de France consecutivi e sembrava destinato a stabilire una lunga tirannia nel mondo delle due ruote: nel 1984 aveva appena 24 anni, essendo nato a Parigi il 12 agosto del 1960. Ecco, quell'anno, il 1984, quello delle Olimpiadi di Los Angeles, Fignon aveva sfiorato anche il Giro, perdendo la maglia rosa nella cronometro finale che giungeva all'Arena di Verona: decisivo l'apporto tecnologico fornito a Moser dalle ruote lenticolari. Al Tour, però, aveva dato dieci minuti a sua maestà Bernard Hinault e undici al campione del mondo in carica Greg LeMond. Invece, da quel momento cominciò un periodo di buio agonistico per Fignon, dovuto anche a ripetuti infortuni. Hinault avrebbe vinto il Tour del 1985, il suo quinto e rimasto l'ultimo per i francesi!, davanti a LeMond, con Fignon assente. Lemond avrebbe vinto, primo americano della storia, il Tour del 1986, Hinault secondo e pronto al ritiro a soli 32 anni. Il professore francese avrebbe dovuto attendere, si diceva, il Giro del 1989 per tornare a fare classifica in un grande giro. Nel frattempo, si era annesso, noblesse oblige, due Milano-Sanremo consecutive ('88 e '89).
File:Laurent Fignon, Système U (cropped).jpg - Wikipedia
Laurent Fignon (FRA)
Greg LeMond
Greg LeMond era un predestinato. Ciclista dove, negli Usa, il ciclismo era sport di puro diletto, aveva messo a profitto il fatidico incontro con un italoamericano di origini marchigiane, Fred Mengoni. Suo ispiratore e mentore. LeMond, nato in California il 26 giugno 1961, era stato campione del mondo nel 1983, dopo il secondo posto inflittogli da Saronni a Goodwood nel 1982. Ma, era anche magnifico corridore da gare a tappe. In carriera, faceva il Giro per preparare il Tour. Eppure arrivò con facilità terzo e quarto nella corsa della Gazzetta ('85 e 86). S'è detto del Tour che vinse su Hinault nel 1986. Poi, il fato volle esigere da lui un prezzo elevatissimo dalla gloria ottenuta. Un incidente, un banale incidente di caccia, rimase ferito e forzatamente lontano dalle competizioni per due lunghi anni, essendosi temuto per la sua carriera oltre che per la sua vita. Tornava alle corse proprio nel 1989. Quando comincia la nostra storia.
Greg LeMond - Wikipedia
Greg Lemond (USA)
Tour de France 1989
Dopo anni contrappuntati da assenze dolorose, al via della Grande Boucle, ci sono tutti i migliori. Fignon, appunto, fresco vincitore del Giro, LeMond, risorto, Pedro Delgado, vincitore, tra le polemiche, del Tour del 1988, la corazzata della PDM, che schiera, tutti assieme, Theunisse, Rooks, Alcala e Kelly: finiranno tutti e quattro tra i primi dieci della classifica generale, pur mancando il podio. La corsa comincia con un coup de theatre: lo spagnolo Delgado, nel cronoprologo del Lussemburgo, si presenta al via con due minuti e mezzo di ritardo. Perché? Si tireranno in ballo i sospetti di doping che avevano adombrato la sua vittoria dell'anno prima. Delgado dovrà correre in rimonta tutto il Tour e chiuderà terzo, nonostante la superiorità manifesta in salita. La prima maglia gialla è dell'olandese Breuking, classe 1964, uno che aveva più reputazione nelle corse a tappe, allora, dei coetanei Bugno e Indurain, luogotenente di Delgado. Fignon prende la maglia gialla alla quinta tappa. LeMond gliela porta via alla decima, dopo una cronometro interminabile, 73 km, che giunge a Futuroscope. Fignon la riprende a Superbagneres, sui Pirenei, e la cede di nuovo a LeMond, a Gap, all'esito della quarta cronometro di quel Tour! Fignon va meglio in salita. E si veste ancora di giallo dopo l'Alpe d'Huez, domata dall'olandese Theunisse. Fino alla cronometro, la quinta, che giunge a Parigi da Versailles, il 23 luglio 1989. La Francia è tutta con Fignon. Con l'eccezione degli inconsapevoli organizzatori, che hanno infarcito il Tour di 190,3 km contro il tempo, cronosquadre compresa! Fignon lotta, ma LeMond vola. E vince il Tour de France 1989 con il vantaggio più esiguo e beffardo della storia del ciclismo: 8"! Otto, tremendi secondi, che porranno fine alla carriera di Fignon ad alti livelli. La seconda beffa per Fignon, dopo quella di Verona 1984. Troppo. LeMond vincerà anche il Tour, il suo terzo, del 1990.


mercoledì 22 aprile 2020

Tour de France 1938: vince Gino Bartali

Professionista dal 1934, quando partecipa al Tour de France del 1938, Gino Bartali ha 24 anni: li compirà durante la corsa. Lo scalatore toscano ha già vinto il Giro d'Italia nel 1936 e nel 1937. Nel 1938 sceglie di disertare la corsa della Gazzetta, perché tutti i fisiologi del tempo ritengono impossibile partecipare, almeno con ambizioni di classifica, alle due grandi gare a tappe nella stessa stagione. Troppa fatica, troppo difficile il recupero. Eppure, questa teoria, poi confutata più volte, stava cedendo già l'anno prima, proprio sotto i colpi di pedale di Bartali, che, dopo il Giro, si apprestava a vincere il Tour, avendo vinto a Grenoble e indossato la maglia gialla. Poi, però, una caduta rovinosa dentro un torrente d'acqua gelida l'aveva lasciato dolorante e febbricitante, fino al ritiro per bronchite. E provvidenziale era stato il soccorso prestatogli da Camusso. Insomma, in quel 1938, Bartali aveva un conto in sospeso, con la fortuna e con il Tour. Niente Giro, per puntare tutto sulla Grande Boucle, Bartali vince a Marsiglia, ma conquista la maglia gialla sulle Alpi, quando trionfa a Briancon, dopo una cavalcata solitaria. Orio Vergani, inviato del Corriere della Sera, racconta del tributo che tutta la carovana al seguito della corsa offre a Gino Bartali: "applaudivano i suivers, i competenti, gli autisti, i meccanici, i giornalisti di ogni Paese...". Sul traguardo di Parigi, Bartali precede il belga Felicien Vervaecke di oltre 18 minuti. Un'impresa leggendaria nell'anno d'oro dello sport italiano: la nazionale di Pozzo e Meazza, proprio in Francia, aveva da poco conquistato il secondo campionato del mondo di calcio consecutivo. Per i colori azzurri, si tratta del terzo successo assoluto al Tour, dopo quelli di Bottecchia nel 1924 e nel 1925. Bartali, nessuno come lui, saprà ripetersi a dieci anni di distanza, nel 1948!

martedì 21 aprile 2020

Gli errori di Cuper il 5 maggio 2002

Tanti, troppi errori, tutti assieme il 5 maggio 2002, sintesi indiscutibile della carriera di un allenatore serio, preparato, ma perdente. O, comunque, non vincente. Hector Cuper. Ma, facciamo un passo indietro. L'Inter, il 28 aprile 2002, dopo aver dilapidato un grosso vantaggio, mentre comincia la penultima giornata di campionato, si trova a +1 sulla Juve. Peraltro inopinatamente risorta da circa un mese. Quel giorno, al Meazza, si deve affrontare il Piacenza di Novellino. Inter preoccupata e affannata, gioca con il tridente Recoba-Vieri-Ronaldo. Tridente mascherato, perché Recoba deve giostrare, malgrado lui, da centrocampista di fascia sinistra. Cuper non può né sa derogare al dogma laico del 4-4-2. Alle spalle del Chino c'è Gresko, che tiene in panchina Georgatos! Di Biagio e Cristiano Zanetti sono esausti, ma tengono la diga di centrocampo. A destra gioca Seedorf, segnatevi questo nome, come quello di Gresko, perché ci torneremo. Ronaldo e Vieri, che la critica meno avvertita, loro due compresi, immagina come coppia devastante, si cercano ma si pestano anche i piedi. Perché il calcio è un gioco semplice. Pozzo mai si sognò di far giocare Meazza e Piola tutti e due da centravanti. Meazza, sublime e insuperato, arretrava, perché sapeva farlo, a mezzala. Riva condusse il Cagliari al titolo del 1970, dopo che Boninsegna era passato all'Inter nel 1969. E lo stesso Boninsegna esplose lontano da Riva. Perché il centravanti uno deve essere! Per fortuna, Recoba è in giornata. Da un suo angolo tagliato, nasce il gol di Cordoba. Il Piacenza non molla ed infila il pareggio con Matuzalem. Rivedete quel gol ed avrete l'idea di un'Inter in disarmo. Che torna in vantaggio grazie ad una magica punizione di Recoba. Replicata, però di destro, da una punizione di Ronaldo. Due prodezze, estemporanee e slegate da un gioco lento e monocorde. L'Inter vince 3-1. Resta a + 1 sulla Juve. In vista dell'ultima giornata: Udinese-Juve, Lazio-Inter. Comincia sulla stampa un'indegna cagnara, intesa a destabilizzare l'ambiente nerazzurro, già in fibrillazione di suo. Si crede, si vuol far credere, che la Lazio, che pure cerca un posto in Europa, lascerà vincere l'Inter, per non favorire un successo sul filo di lana della Roma, terza a due punti dall'Inter e a un punto dalla Juve: i giallorossi saranno di scena sul campo del Torino. L'Inter ha paura. Una paura che affonda le radici nell'imprevista e, un mese prima, imprevedibile rimonta della Juve: si era a lungo parlato di un possibile esonero di Lippi a fine stagione. Ma, è anche paura di vincere. Paura che ha soprattutto Cuper. Già sconfitto in tre finali: con il Mallorca, dalla Lazio, in Coppa delle Coppe, dal Real Madrid e dal Bayern Monaco, in Champions, con il Valencia. E Lazio-Inter ha tutto il peso, il sapore, il retroterra e il mood di una finale. Il tecnico argentino presente la sconfitta, che teme troppo, quasi propiziandola. E, alla fine, provocandola con una delle formazioni meno sensate della storia nerazzurra. Intanto il tridente. Recoba, Ronaldo e Vieri non si sommano e non del tutto si integrano. La Lazio è squadra solida. Sarebbe più saggio partire con Vieri e Recoba, la coppia che aveva assicurato il successo nella partita-scudetto contro la Roma qualche settimana prima. Pur volendo schierare i tre assi davanti, servirebbe equilibrio e protezione dietro. Ma, Cuper non ci pensa. Schiera Gresko, che è più emotivo di lui, dietro Recoba: sarà un disastro, con due gol regalati a Poborski. Lascia fuori Seedorf, uno che ha già giocato tre finali di Champions, tra Ajax e Real Madrid, vincendone due!, un leader carismatico, l'autore della doppietta contro la Juve, che ha tenuto l'Inter in linea di galleggiamento. E lo tiene fuori per Conceicao! Il portoghese, davanti al suo ex pubblico, è un fantasma. La catena di destra, con Zanetti peggiore in campo, sarà il punto debole dell'Inter, più della catena di sinistra, sabotata dalla mediocrità di Gresko. Eppure l'Inter passa in vantaggio: angolo di Recoba, uscita goffa di Peruzzi, palla a Vieri, che segna. Pareggia Poborski su gentile omaggio di Gresko. Di nuovo angolo di Recoba, splendido, tagliato, sul primo palo, per il terzo tempo di Di Biagio. Niente da fare. Allo scadere, pasticcio Gresko-Toldo e Poborski pareggia. Intervallo. Sarebbe ancora tutto possibile. Sebbene la Juve sia sul 2-0 a Udine, maturato dopo un quarto d'ora e destinato, tu guarda il caso, a non cambiare. E Cuper cosa fa? Cosa dice nello spogliatoio? L'Inter rientra spaurita nella ripresa. Gresko resta in campo, Seedorf in panchina. Uscirà invece Ronaldo! Vince la Lazio, con zuccata di Simeone, che nemmeno  ha bisogno di saltare nella gentile area nerazzurra e gol del finale 4-2 di Simone Inzaghi, servito da Cesar, che scherza Zanetti in un fazzoletto. Disastro. Scudetto alla Juve.

lunedì 20 aprile 2020

Tributo a Joaquin Peirò

Voglio ricordare, a circa un mese dalla scomparsa, Joaquin Peirò, centravanti spagnolo della Grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Già in forza all'Atletico Madrid, poi sarebbe andato alla Roma, titolare saltuario della nazionale spagnola, giocò nell'Inter dal 1964 al 1966. Gli ultimi anni del boom economico italiano. Di cui l'Inter divenne manifesto proverbiale, come proverbiale sarebbe diventata la sua formazione di Coppa, Peirò giocava solo in Coppa perché in campionato c'era posto solo per due stranieri in campo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Questa squadra, dalla difesa impenetrabile sotto il governo astuto e carismatico del capitano Armando Picchi, era un prodigio di verticalità e di ermetismo calcistico. Tre, quattro passaggi, per ribaltare l'azione e andare a rete. Contropiede fulminei, il lancio di Suarez, lo scatto di Jair o di Sandro Mazzola. Ma, non era solo questo. Perché c'era anche il ciondolare di Mariolino Corso, dal magico sinistro, finta ala, che inventava gioco sulla trequarti e c'erano le progressioni, mai viste prima, del tonitruante Facchetti, terzino ma anche ala, che Brera avrebbe voluto persino centravanti. Il centravanti, invece, in Coppa, era Peirò, rapido, tecnico, svelto. L'Inter campione d'Europa in carica, il 4 maggio del 1965 gioca le semifinali d'andata a Liverpool. Soffre l'atletismo inglese, sostenuto da un tifo pazzesco e perde 3-1: gol della bandiera, e della speranza, di Mazzola. Il 12 maggio, c'è il ritorno. San Siro, non ancora intitolato a Meazza, che è vivo e vegeto, è stracolmo. Una punizione a foglia morta di Corso sblocca il risultato. Raddoppia proprio Peirò, che ruba palla al portiere in palleggio, di sinistro, e segna di destro. Il Liverpool protesta, ma il gol è valido. Sarà poi Facchetti a segnare il gol del 3-0, e della qualificazione, dopo irresistibile discesa. La rete di Peirò diverrà il simbolo di quella rimonta dell'Inter, che poi batterà in finale il Benfica di Eusebio, con gol di Jair. 
File:Joaquín Peiró - FC Internazionale 1964-65.JPG - Wikipedia
Joaquin Peirò

giovedì 16 aprile 2020

L'inutilità del progresso e il coronavirus

Dipinte in queste rive, Son dell'umana gente, Le magnifiche sorti e progressive (G. Leopardi, La Ginestra)
La quarantena come nel 1348, quando Venezia era l'unica potenza mondiale attiva nel Mediterraneo, il Papa svernava ad Avignone, i tedeschi svernavano e basta e l'uomo, meno delirante rispetto ad oggi, non si stimava il centro di alcunché. Dopo quasi sette secoli, la riforma protestante, la rivoluzione scientifica, i miasmi dell'Illuminismo e della Rivoluzione Francese, mille guerre, due mondiali e una fiducia infantile e prepotente nel progresso, il  coronavirus, di cui ancora, colpevolmente, s'ignora, o si finge d'ignorare, scaturigine e genesi, riporta indietro le lancette della storia. Alla quarantena veneta. Sebbene ci sia un'organizzazione mondiale della sanità, nessuna maiuscola!, che nulla ha organizzato né sanificato. Peraltro, mondiale è un aggettivo che detesto. Mi sta bene solo sostantivato. Come mondiale, di calcio! 

C'era una volta Giuseppe Saronni: 3^ puntata (1984-1990)

Molti poi scrissero che il motore di Saronni era andato fuori giri per prevalere su Visentini nel Giro del 1983. Non credo. Anche perché Saronni vinse con più di un minuto di vantaggio. Certo, soffrendo e stringendo i denti, ma, in bicicletta, chi non lo fa? Ad ogni modo, dopo, vennero due anni di reflusso agonistico, due piazzamenti intorno al quindicesimo posto al Giro sia nel 1984, quando ci fu la sorprendente resurrezione di Moser - che fece suoi primato dell'ora, Sanremo e, per la prima e unica volta, il Giro - sia nel 1985. A 28 anni, Saronni era declinante. C'entrava, di più, a mio parere, la precocità della sua affermazione, l'intensità delle sue stagioni - Saronni si dedicava anche al cross d'inverno - e, forse, una certa sazietà. Nel 1986, il canto del cigno. Tornò competitivo al Giro. Secondo, proprio dietro Visentini e davanti a Moser! E ci fu anche il terzo posto ai mondiali di Colorado Springs, vinti da Argentin, davanti a LeMond. Nel 1987, tardi, troppo tardi e con poca voglia, Saronni si decise a correre il Tour, che avrebbe poi vinto Stephen Roche in stato di grazia. Nessuna tappa e ritiro. Resta il Tour de France il vuoto più grande nella carriera altrimenti straordinaria di Saronni. Di lì in avanti, successi radi, sempre più regista della propria squadra, sempre più lontano dal clamore, dalle interviste. Nel 1988, poi, si ritira il grande rivale Moser. Saronni lascia, a soli 33 anni, nel settembre del 1990. A conti fatti, Saronni ha segnato un'epoca, così la sua rivalità con Moser, degna di quelle tra Girardengo e Belloni, Binda e Guerra, Baldini e Nencini, Gimondi e Motta e, dopo, Bugno e Chiappucci. Anzi, diciamo la verità, la rivalità Saronni-Moser regge il confronto anche con la rivalità Bartali-Coppi. Lo perde, questo confronto, ma lo regge. Anche se, ca va sans dire, Bartali e Coppi sono stati più forti, incommensurabilmente più forti. Però, la divisione simmetrica del tifo che ci fu tra bartaliani e coppiani si rivide solo, 30 anni dopo, tra saronniani e moseriani. E poi mai più. (1^ puntata, 2^ puntata)

mercoledì 15 aprile 2020

Il dribbling in un fazzoletto: Carlos Valderrama

Chioma ricciuta e bionda, ma tinta, su carnagione bruna, fisico tozzo, corsa lenta e svogliata, numero dieci sulle spalle, Carlos Valderrama era un calciatore antico già 30 anni fa. Sudamericano, colombiano, giunse a sommare più 100 partite con la maglia della propria nazionale, partecipando a tre mondiali, tra il 1990 e il 1998, conquistando tre terzi posti in Coppa America e due premi come miglior giocatore sudamericano dell'anno, nel 1987 e nel 1993. Mentre il calcio virava verso l'atletismo puro, si velocizzava e si drammatizzava, Valderrama restava un impassibile e compassato artista della metà campo. Non eseguiva uno scatto, se non per chiudere uno degli innumerevoli triangoli che disegnava sul rettangolo di gioco. Il suo talento era quello dello scacchista: prevedeva, in anticipo, due, tre, quattro mosse successive, due, tre, quattro fotogrammi del film agonistico che si andava svolgendo. E, così, dentro pochi metri, danzava sul pallone, una finta, uno scarto, la palla dal destro al sinistro, il lancio. Di prima. Mandava a vuoto con la solita finta sempre un paio di avversari. E liberava al tiro un compagno. Come un pittore rinascimentale, che passasse a controllare il lavoro dei suoi apprendisti. Gli bastava un tocco solo, molte volte, per mutare il senso e il corso di un'azione, talora di una partita. Un campione di sottrazione. Lento nell'incedere, fulmineo nel pensare, consapevole e regale nell'eseguire. 
Carlos Valderrama - Wikipedia
Carlos Valderrama

C'era una volta Giuseppe Saronni: 2^ puntata (1980/83)

Dal 1980 al 1983, Saronni matura e si consacra, affina il suo talento e coglie, una ad una, tutte le grandi corse messe nel mirino, con la sola vera eccezione della Liegi-Bastogne-Liegi. Al Giro del 1980, il secondo conquistato dall'asso bretone Hinault, Saronni è settimo nella generale, ma vince anche sette tappe! Come sapevano fare Binda o Guerra negli anni '30! Si aggiudica anche la Freccia Vallone e il campionato italiano, dentro il ricco carniere di ventidue vittorie stagionali. Nel 1981, è terzo al Giro, conquistato da Battaglin, mentre a Praga, Maertens lo brucia sul traguardo del campionato del mondo. Saronni saprà riscattarsi un anno dopo a Goodwood, Inghilterra, dove la sua volata diventa la proverbiale fucilata, un'accelerazione che si fa subito progressione irresistibile,  i rivali, e che rivali!, distanziati, annichiliti. Saronni campione del mondo, davanti a Greg LeMond e Sean Kelly. Poi, Saronni, con la maglia iridata, conquista il Giro di Lombardia e, nel 1983, la Milano-Sanremo, chiudendo la sua era dorata con il bis al Giro d'Italia, dopo uno sfiancante confronto con Roberto Visentini. A 26 anni, che compirà nel mese di settembre, ha vinto moltissimo, dappertutto. Già più di cento corse da professionista, in volata, a cronometro, in salita, in brevi, medie e grandi corse a tappe. Gli manca solo un'affermazione, non dico assoluta, ma almeno parziale, al Tour de France. Che a quei tempi gli italiani disertano in massa. Lo stesso Moser, dopo il settimo posto del 1975, non c'è più andato. Saronni nemmeno ci va. Non nei suoi anni migliori. Quando, sarebbero state alla sua portata tappe, tante tappe e la maglia gialla, sebbene non quella finale. Sarà il grande limite della sua carriera, che, peraltro, conoscerà un precoce tramonto.

martedì 14 aprile 2020

C'era una volta Giuseppe Saronni: 1^ puntata.

Classe 1957, Giuseppe Saronni, cresciuto in pista e azzurro alle Olimpiadi di Montreal 1976 nell'inseguimento a squadre, passa al professionismo nel 1977, che non ha ancora 20 anni. Il ciclismo si è appena lasciato alle spalle il lunghissimo regno di Eddy Merckx, mentre Gimondi, il maggior rivale del campionissimo belga, è alla penultima stagione della carriera. Le maggiori speranze italiane sono appuntate sulla classe e la tenacia del trentino Francesco Moser, uno che va forte dappertutto: si piazza nei grandi giri, vince le classiche, corre tutto l'anno, come qualcuno già non fa più. Saronni è un corridore unico nel suo genere. Ha uno straordinario spunto veloce, anzi, è proprio un velocista, uno che sa dominare le volate di gruppo, ma anche un fantastico finisseur, forte sul passo, si difende in salita, vuol vincere sempre. Va subito a bersaglio. Vince il Giro di Sicilia, breve corsa a tappe, si aggiudica tre classiche del calendario italiano: Giro del Friuli, Giro del Veneto e Tre Valli Varesine, la corsa più amata da Binda, che Saronni vincerà altre tre volte. Nel 1978, debutta al Giro d'Italia, dopo aver vinto la Tirreno-Adriatico ed un amaro secondo posto a Sanremo. Nella corsa della Gazzetta, Saronni è quinto, con tre tappe. Inizia una rivalità leggendaria con Moser. Nel 1979, Saronni vince da dominatore il Giro d'Italia e si sprecano i paragoni. Era dal successo di Coppi nel 1940 che un corridore così giovane non s'imponeva. Secondo è, manco a dirlo, Moser, a 2'09" da Saronni.

venerdì 10 aprile 2020

Da che si giudica un giocatore di calcio? Storia di gruppi e di individui

Sport giocato in undici, il calcio, anzi, da quando ci sono le sostituzioni, prima in tredici poi in quattordici, spesso, quasi sempre. Eppure resiste la voglia di distribuire meriti e colpe, da parte degli innumeri Alighieri della pelota. I narratori di obbedienza sacchiana esaltano il ruolo degli allenatori nella dimensione strategica o, più prosaicamente, tattica. Io dico invece, per venire al tema del post, che gli allenatori incidono e moltissimo sulle fortune dei singoli calciatori, influenzandone prestazioni e qualche volta carriere. Fino all'incontro con Alex Ferguson, al Manchester United, Erik Cantona era un talentuoso e bizzoso e rissoso calciatore, che viveva di continui saliscendi di rendimento. A 26 anni, a Manchester, smette i panni, salvo qualche rara ricaduta, del ribelle e diventa condottiero, anima e leader tecnico di una delle squadre più vincenti della storia. Ogni giocata, anche la più spavalda e beffarda e provocatoria è messa al servizio del risultato. Tutto, anche i dribbling a rasoio, i tiri da 30 metri, tutto il suo repertorio che, prima, era spesso fine a se stesso. Da che si giudica un giocatore? Da quel che ha fatto o da quel che avrebbe potuto fare? Il problema è che, spesso, senza il beneplacito di un allenatore che ne capisca, il giocatore può fare poco o comunque meno di quanto il solo talento gli permetterebbe. E vale anche il contrario:

  • Mondiali del 1978: Zoff prende tre gol dalla grande distanza, tutti belli, tutti, probabilmente, evitabili. Ha 36 anni suonati. Bearzot lo difende, insiste, se ne frega di quelli che accusano Zoff di non vedere bene, e ce ne sono. Zoff alzerà da capitano la coppa del mondo del 1982.
  • Londra, Arsenal, 1995. Bergkamp arriva dall'Inter, reduce dalla peggiore stagione della carriera. Rifiuta di prendere l'aereo: i voli durante i mondiali americani del 1994 hanno acuito una paura che si tramuta in panico. Ha 26 anni, l'asso olandese. E il valore del suo cartellino si è quasi dimezzato. Wenger, allenatore francese che sarà amatissimo in Inghilterra!, gli permette tutto. Di non volare e di non tornare a difendere. Gli concede libertà assoluta. Bergkamp ritorna il fenomeno ammirato all'Ajax e va oltre. Segna gol irreali, regala assist magnifici, firma successi in serie, tra Premier League e coppe varie.
  • Milano, 1999. Lippi arriva all'Inter. Roberto Baggio, con cui aveva poco legato alla Juve, viene tenuto ai margini della squadra. Gli viene preferito anche il giovane Russo. Molti lo danno per finito. Poi, spareggio per la Champions contro il Parma. Lippi è costretto a puntare su Baggio, che rifila una memorabile doppietta a Buffon. Inter qualificata, panchina di Lippi salva. Baggio saluta, perché la convivenza con Lippi è impossibile e va a Brescia. Dove Mazzone, grande e sottovalutato maestro di calcio, gli regala una seconda giovinezza. Baggio segna e fa segnare, anche in mezzo a gravi infortuni. Meriterebbe di giocare i mondiali del 2002. Trapattoni lo lascia a casa. Poi, ammetterà di aver sbagliato.
Potrei continuare con gli esempi. Ma, mi fermo qui.

giovedì 9 aprile 2020

L'eleganza di Michael Laudrup, il maestro del dribbling a due tocchi

Anno di grazia 1983. La serie A di calcio è il campionato più bello e più competitivo del mondo. Giungono da tutto il mondo i migliori giocatori e tanti già ci sono. Arriva pure, alla Lazio neopromossa, un diciannovenne danese, Michael Laudrup, ma in prestito, perché il suo cartellino appartiene alla Juventus: Boniperti, che quando giocava ne ebbe parecchi, e forti, di danesi in squadra, scommette sul suo futuro di campione. Il problema è trovargli un ruolo. Laudrup è alto 1,83 m, ha un fisico asciutto, gambe forti e reattive. Eccelle nel dribbling, ha uno scatto fulmineo. Pensano in molti che sia una seconda punta. Ma, segna poco. Anche quando, nel 1985, si trasferisce alla Juve, per sostituire Boniek. Platini lo fulmina con un giudizio splendido ma feroce: il più grande giocatore del mondo, in allenamento. Con i bianconeri gioca quattro stagioni da eterna promessa, fino al 1989. E la serie A lo saluta come un incompiuto, privo di grande personalità. Lo prende, però, e non è un caso, il Barca di Cruijff il magnifico. Avviene la svolta. Laudrup con i blaugrana inizia ad interpretare il suo ruolo naturale: la mezzala. Comanda il gioco offensivo, dribbla con naturalezza disarmante, segna con quel suo tiro secco, improvviso, anticipato. Non è barocco, sebbene tecnicamente superiore. Questo lo rende molto apprezzato da Cruijff. Il Barca vince tutto, in Spagna, in Europa e nel mondo. Solo nel 1994, finale di Coppa dei Campioni contro il Milan, la regola dei tre stranieri in campo, e un errore di valutazione del tecnico olandese tiene Michael Laudrup fuori da una partita che il Barcellona perde a sorpresa per 4-0. Senza il danese, il centrocampo catalano è lento e prevedibile. Laudrup poi andrà al Real Madrid, vincendo un'altra Liga, quindi in Giappone, per chiudere nell'Ajax che era stato di Cruijff. Manca il successo agli Europei di Svezia del 1992, perché aveva temporaneamente abbandonato la nazionale danese. Il suo congedo avviene ai mondiali di Francia del 1998. Quarti di finale contro il Brasile. Tolto Ronaldo, il più brasiliano in campo, per tocco ed estro e fantasia è proprio il danese Laudrup. L'eleganza applicata al gioco del calcio. Quell'eleganza, anche nel tratto e nei comportamenti, che fuorviò molti giudizi su di lui. Laudrup era un gentiluomo che si scaldava poco. Ma accendeva il gioco. Chiedete ai giocatori, passati e presenti chi sia stato il miglior giocatore della Liga nei primi anni '90. Risponderanno, anzi hanno tutti già risposto, Michael Laudrup. Il suo dribbling a due tocchi (the two-touch dribble), sempre lo stesso, con palla spostata a velocità massima dal destro al sinistro, ha fatto scuola. Quasi quanto la finta di Garrincha.

martedì 7 aprile 2020

Il Giro dei Paesi Baschi. Bottecchia ed Hemingway

"The Tour de France was the greatest sporting event in the world" (E. Hemingway, Fiesta)
La cronaca è a riposo e possiamo tuffarci nella storia. Del ciclismo e della letteratura. Siamo nei ruggenti anni '20, quelli del jazz e del fox-trot. In Francia, soprattutto a Parigi, sulle due rive della Senna, si radunano intellettuali e sfaccendati, spesso non c'è differenza tra gli uni e gli altri, per lo più sono artisti, pittori, scultori, scrittori, filosofi, attori, cantanti. Alcuni ricchi e svogliati, altri pieni di talento e destinati a lasciare una traccia profonda di sé. Tutti assieme formano quella che Gertrude Stein definirà la generazione perduta, che vive come se non ci fosse un domani, in un perenne stordimento. Sarà Hemingway, americano tra i tanti che allora svernano nella vecchia Europa, a raccontare la festa mobile, incessante e ininterrotta che quella gioventù privilegiata, sono pochi ma rumorosi e influenti, organizza ogni giorno. La Grande Guerra è alle spalle, l'influenza spagnola anche, non esiste o non si avverte il presagio delle altre sciagure che il Novecento ha in serbo per l'umanità. Il romanzo di Hemingway s'intitolerà proprio Fiesta, con sottotitolo illuminante: Il sole sorgerà ancora. E racconta le peripezie di un gruppo di giovani estrosi ed annoiati, che si trascina tra sbronze ed amorazzi, visioni e delusioni, liti e vaghe speranze, grandi opere d'ingegno e comuni meschinità. Da Parigi fino a Pamplona, dove si tiene la Festa di San Firmino, con i tori liberati per le viuzze cittadine. Sede d'arrivo della prima tappa del Giro dei Paesi Baschi nell'agosto del 1925. Bottecchia, già vincitore del Tour de France (il più grande evento sportivo del mondo, si legge nel romanzo) del 1924 e del 1925, è stato costretto al ritiro ed il narratore di Hemingway ne parla il giorno dopo a San Sebastian, traguardo della seconda tappa, con il manager di una squadra. Il ritiro di Bottecchia, corridore italiano ma eroe solo in Francia, ha tolto fascino alla corsa basca. La prima irruzione del ciclismo nella letteratura.

mercoledì 1 aprile 2020

Chi era Giorgio Chinaglia

Un centravanti immarcabile, nelle giornate di grazia, per un rapporto peso/potenza, per indulgere al linguaggio del ciclismo, che ha avuto pochi riscontri nella storia del calcio. Giorgio Chinaglia - cresciuto calcisticamente in Galles, svezzato nell'Internapoli, eroe ineguagliato del primo scudetto della Lazio, stagione 1973/74, 24 gol e capocannoniere, meteora in nazionale e pioniere dominatore del calcio a stelle e strisce nei Cosmos di New York - da un punto di vista tecnico, non andava oltre la sufficienza. Tuttavia, spalle alle porta, non c'era modo di portargli via un pallone. Perentorio nel gioco aereo, aveva tiro violento, secco e preciso. Ma la sua vera forza era la progressione, quando s'ingobbiva palla al piede e travolgeva ogni ostacolo. Come Nordahl negli anni '50, come, ma meno, Vieri, tra i '90 e '00. Chinaglia fu discusso e controverso, leader di una delle due fazioni in cui la Lazio del saggio Maestrelli era spaccata in settimana, salvo poi, in campo, compattarsi e vincere. E, in campo, Chinaglia diventava il condottiero di tutta la squadra. Delle sue imprese e dei suoi errori hanno scritto in tanti. Una cosa però, al netto del suo valore grande di calciatore cui ho accennato sopra, va ricordata. Amava visceralmente il calcio Chinaglia. Proprio nel 1974, incise una canzone dei fratelli De Angelis, gli autori di tutte le musiche dei film di Bud Spencer e Terence Hill, per capirci. S'intitolava: I'm football crazy! Ecco, in quel titolo, c'è tutta la storia d'amore di Chinaglia con il calcio.
File:Giorgio Chinaglia Nazionale.jpg - Wikimedia Commons
Giorgio Chinaglia

martedì 31 marzo 2020

Jesse Owens e Carl Lewis

Berlino 1936, Jesse Owens, nero americano, vince quattro medaglie d'oro: 100 m, 200 m, salto in lungo, staffetta 4x100 m. Un trionfo, che mette in crisi le folli sicurezze hitleriane sulla pretesa superiorità della razza ariana. Owens è un atleta formidabile già da alcuni anni. A Berlino arriva da detentore del primato del mondo nel salto in lungo: 8,13 m saltati un anno prima. Primato che resisterà quasi 30 anni. Debbono passarne 48, di anni, perché un altro americano, Carl Lewis, Los Angeles 1984, ripeta l'impresa di quattro medaglie d'oro nelle medesime discipline. Un confronto tra i due è stato spesso proposto. Chi è stato più grande? Di certo Carl Lewis è stato più longevo, anche perché ha potuto partecipare, andando sempre a medaglia - alla fine ne avrà vinte nove! - a quattro Olimpiadi consecutive. Owens invece, dopo Berlino passò al professionismo, allora incompatibile con le olimpiadi. Cui, comunque, a causa della seconda guerra mondiale, non avrebbe potuto partecipare. I giochi del 1940 e del 1944 non si sarebbero tenuti. 

lunedì 30 marzo 2020

Pallone d'oro 1972: 1. Beckenbauer. 2. Gerd Muller 3. Netzer

La Germania Ovest vince i campionati europei del 1972 e piazza tre giocatori in cima alla classifica del pallone d'oro. Franz Beckenbauer vince, è il Kaiser, dal latino Caesar, con la c pronunciata dura, è un elegantissimo libero, già superbo centrocampista, che reinventa il ruolo reso illustre da Picchi. Legge in anticipo le traiettorie, domina nel gioco aereo ed esce palla al piede, con finte e dribbling. Comanda il gioco, muovendo dalle retrovie. E, qualche volta, attraversa tutto il campo fino a battere a rete. Il libero alla tedesca. Dopo di lui verranno Stielike ma anche Matthaus, Schuster e Thoen, dopo gloriose stagioni spese a centrocampo, e Sammer. Secondo Gerd Muller, centravanti brevilineo, tozzo e sgraziato, mortifero in aera di rigore, sempre in anticipo sui difensori. Un goleador tremendo. Terzo è Gunther Netzer, che, per una volta, gioca al posto del grande rivale Overath, mancino compassato ed elegante, tutto raziocinio, mentre Netzer è un dieci potente, dalla grande progressione e dal tiro violento e preciso. Ha 48 di piede, eppure un controllo assoluto del pallone. Johann Cruijff è solo quarto, davanti al grande rivale nel suo Ajax, Keizer. Un litigio fra i due, per la fascia di capitano, farà sì che Crujff, l'anno dopo, lasci Amsterdam per Barcellona.

venerdì 27 marzo 2020

La deriva parolaia della legislazione italiana

Diario del coronavirus
Avete letto il Decreto Legge dell'altro giorno? Parole, parole, parole, citazioni, rimandi, eccezioni, esclusioni, riserve, dentro un caleidoscopio di oscure perifrasi. C'è tutto in quel decreto legge, tutto il mistero, tutta la tenebra e la ricercata approssimazione degli arcana juris. Perché? Perché la chiarezza è nemica dell'interpretazione e dell'interpretabilità. Quel che è chiaro non si interpreta. Non ne ha bisogno. 

giovedì 26 marzo 2020

Il rinvio di Tokyo 2020: chi scriverà il nuovo Decameron?

Il Comitato Olimpico Internazionale ha disposto il rinvio dei giochi olimpici di Tokyo 2020. Si disputeranno non quest'estate, ma più avanti, non però oltre l'estate del 2021. Insomma, questo stramaledetto coronavirus - quale che sia stata la sua scaturigine, immagino destinata a rimanere nel campo delle probabilità e, pertanto, in certo senso, misteriosa - è riuscito dove avevano potuto solo le due guerre mondiali del 1900. Quando saltarono le Olimpiadi di Berlino 1916. Si sarebbero poi tenute nella capitale tedesca con  20 anni di ritardo, nel 1936. E quando saltarono le Olimpiadi di Tokyo, che ritorna come vedete, nel 1940, con slittamento al 1964!, e di Londra dal 1944 al 1948, perché la perfida Albione contava di più. Molti atleti, il prossimo anno, potrebbero non gareggiare per raggiunti limiti anagrafici o di tenuta atletica o di pazienza, a pensarci bene fa lo stesso. Una cosa, però, anzi qualcuna di più, sulla gestione dell'emergenza sanitaria voglio dire:
1. da anni, almeno due decenni, vanno in giro pellicole, le più rozze, su pandemie e variamente declinati cataclismi sanitari, con tanto di riferimenti ora all'eterna, leopardiana, ostilità della natura verso il suo ospite più illustre, l'uomo, ora con cenni a complotti e manovre oscure e sotterranee strategie d'ingegneria sociale;
2. molti studi scientifici vanno illustrando, e da lustri, era necessaria la virgola oxfordiana, la possibilità di pandemie letali;
3. la tecnologia avanza inesorabile (ma non onnipotente);
4. eppure, eppure, eppure il progredito mondo occidentale, cresciuto a weekend nelle capitali europee, Erasmus e spritz e idolatria della scienza, che però sa e non sa e aspetta di sapere un poco di più, si è fatto trovare gravemente impreparato. E non va oltre la quarantena, di cui siamo debitori alla Serenissima Repubblica di Venezia e bisogna andare indietro di secoli.
5. E così stiamo messi male, come nel 1348 e manca anche un Boccaccio che potrà scriverci un Decameron.

martedì 17 marzo 2020

Milano-Sanremo 1920: 100 anni fa vinceva Belloni

Il 25 marzo 1920 si svolse la tredicesima edizione della Milano-Sanremo. Vinse Gaetano Belloni davanti all'asso transalpino Henri Pelissier, che a Sanremo aveva già trionfato nel 1912, che aveva conquistato la Roubaix un anno prima e avrebbe vinto il Tour de France tre anni dopo. Terzo il primo campionissimo del ciclismo italiano, Costante Girardengo, che alla Sanremo vinta nel 1918 ne avrebbe aggiunte altre cinque, restando per decenni il primatista di trionfi nella classicissima, fino all'avvento di Merckx, capace di alzare sette volte le braccia sul traguardo della cittadina ligure. Un ordine d'arrivo, quello della Sanremo 1920, clamoroso. Un'altra Italia, che usciva dalla tragedia della prima guerra mondiale e dalle decimazioni della terribile influenza spagnola. Piazze incandescenti, fabbriche occupate o serrate, scontri tra socialisti e fascisti, D'Annunzio a Fiume. Miseria dappertutto. Perché ricordo la Milano-Sanremo del 1920? Perché, quest'anno, la Milano-Sanremo non si correrà. Salvo sorprese.

giovedì 12 marzo 2020

Psg e Atletico Madrid ai quarti di Champions League

Il Psg, che parte con Mbappè in panchina, batte il Borussia Dortmund di Haaland e Sancho e Hummels - a pensarci il talento ai tedeschi non manca - e vola ai quarti di finale. Basta un 2-0 dopo l'1-2 dell'andata. E non era scontato, visto il cammino in Champions League dei francesi nelle ultime stagioni. L'Atletico Madrid espugna l'Anfield Road di Liverpool. Contro squadre chiuse, fatto noto, gli uomini di Klopp soffrono. Giocare senza un ariete, almeno da pescare in panchina - Firmino, che pura segna, non lo è - diventa un limite. Ma, soprattutto, senza il campo aperto, Salah e Manè diventano non dico ordinari ma certo più prevedibili. E Simeone il campo aperto non lo concede. Poi accade che Lllorente trovi due bei gol in una serata di grazia e che il Liverpool in porta si ritrovi Adrian  e non l'infortunato Alisson. Tutto accade ai supplementari, ai quali il Liverpool arriva grazie al gol di Wijnaldum. E raddoppia subito con Firmino. Poi l'uno-due di Llorente e il sigillo di Morata. I campioni uscenti diventano i campioni usciti. Mai stato un ammiratore del gioco di Simeone. Però, sì un però c'è, Klopp non ha saputo e nemmeno voluto trovargli contromisure. Si è domandato perché l'Atletico giocasse così indietro con due linee, vicinissime, di quattro giocatori. Perchè? La risposta è nei risultati delle due partite.