Blog di critica, storia e statistica sportiva fondato l'11 maggio 2009: calcio, ciclismo, atletica leggera, tennis ...
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lunedì 11 marzo 2024
Inzaghi sulle orme di Herrera
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domenica 9 luglio 2023
Tributo a Luisito Suarez eroe della Grande Inter
Quando, nel 1961, approdò all'Inter di Angelo Moratti, per riabbracciare Helenio Herrera, che lo aveva già allenato al Barcellona, Luis Suarez Miramontes era Pallone d'oro in carica (a oggi l'unico mai conquistato da un calciatore spagnolo). Vinto nel 1960, davanti al leggendario Puskas e al centravanti tedesco Uwe Seeler. Era l'Italia del terzo Governo Fanfani, monocolore democristiano, con l'appoggio esterno dei partiti laici minori e la benevolenza parlamentare di monarchici e socialisti: prove tecniche di centrosinistra. Miracolo economico al suo apice. Spensieratezza diffusa e una fiducia assoluta e ingenua in un progresso, che pareva immancabile. Ai jukebox suonano "Nata per me" di Celentano, "Let's twist again" di Peppino di Capri e "Legata a un granello di sabbia" di Nico Fidenco. Degli afflitti di Manchester - i Beatles - ancora nessuna premonizione. Paragonate il testo della canzone di Fidenco a She Loves you (yeah, yeah, yeah) di un anno dopo e capirete come tutto stesse per saltare in aria. L'Inter non vince lo scudetto dal 1954, l'ultimo della presidenza Masseroni. Moratti ha scelto Herrera un anno prima per riportare i colori nerazzurri al successo che manca da troppo tempo. Il tecnico argentino è un giramondo, a suo modo colto, che capisce prima degli altri l'importanza di una preparazione atletica adeguata allo sforzo e ai gesti del calcio. Sa adattarsi e si adatta. Arrivato a Milano con la fama di allenatore spregiudicato, alla ricerca di tanti gol, scopre il catenaccio e lo porta alla perfezione. Anche narrativa, perché Herrera è un affabulatore - per i detrattori un imbonitore di piazza - e un narratore eclettico e seduttivo. Allena la mente dei calciatori. Li motiva e li esalta fino alla trasfigurazione agonistica. Gli manca ancora un leader tecnico, perché quello caratteriale all'Inter c'è già ed è Armando Picchi. Il libero!
Luisito Suarez |
E così chiede e ottiene l'ingaggio di Suarez, classe 1935, dieci e stella del Barcellona e della Spagna. Un regista a tutto campo, duro nei contrasti, intenso nella corsa, tatticamente onniveggente, tecnicamente superbo. I suoi lanci per 40, 50, anche 60 metri, innescano i contropiede micidiali e proverbiali di Mazzola e di Jair. I suoi cambi di campo suggeriscono le discese mai viste di Facchetti. I suoi filtranti attivano il genio sonnolento di Mariolino Corso. Il marchio di fabbrica di quella che diventerà la Grande Inter: laboratorio di un calcio rapidissimo e verticale che si arrampica sul tetto del mondo. Un'icona degli anni '60. Tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin (Tagnin), Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò (Milani, Domenghini), Suarez, Corso: formazione appresa da mio padre e mai più scordata. Squadra immortale, che gira tutta intorno a Suarez. Fantasioso direttore d'orchestra, capace di valorizzarne tutti i solisti. Un moltiplicatore di talento. Luisito Suarez. Mancato oggi a 88 anni. Ma resterà per sempre. La terra gli sia lieve.
mercoledì 26 maggio 2021
Addio a Tarcisio Burgnich: eroe della Grande Inter
Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso
Avevo appena finito di ricordare che, 50 anni fa, era scomparso Armando Picchi, libero e capitano della Grande Inter, quando mi sono accorto che era venuto a mancare Tarcisio Burgnich che, di quella squadra leggendaria e paradigmatica e irripetibile e iconica di una stagione meravigliosa, era stato il terzino destro, il gladiatore, il marcatore arcigno e insuperabile. Spalle larghissime, quadricipiti poderosi, stacco imperioso. Il tormento per ogni attaccante, che si aggirasse dalle sue parti. Classe 1939, visse tutta l'epopea di quella squadra voluta e plasmata da Angelo Moratti ed Helenio Herrera. E riuscì a vincere anche dopo, lo scudetto in rimonta del 1971, quando della Grande Inter erano rimasti lui, Facchetti, Mazzola, Jair e Corso. La formazione sopracitata divenne una cantilena, una filastrocca. C'è una scena di Ecce Bombo di Nanni Moretti che lo spiega plasticamente. E fu colonna anche della nazionale Tarcisio Burgnich, campione europeo nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970, passando gli ultimi anni di carriera, nel ruolo di libero, perché aveva anche acume tattico a chili il formidabile difensore friulano. Che la terra gli sia lieve.
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C'era una volta Armando Picchi: colonna della Grande Inter. Manca da mezzo secolo
Era nato il 20 giugno del 1935, a Livorno, Armando Picchi. Un brevilineo di costituzione robusta, che aveva giocato per una vita da terzino destro, senza brillare. Tenace nei contrasti, attento nella marcatura. Fino a venticinque anni. Dopo le esperienze con la squadra della sua città e la stagione (1959/60) alla Spal, Picchi approdò all'Inter, che era appena stata affidata alle cure tecniche di Helenio Herrera: allenatore di nazionalità argentina ma randagio e giramondo, ossessionato dal gioco del calcio, colto, spiritoso, istrionico e motivatore sommo. Uno che avrebbe rivoluzionato il calcio italiano e internazionale, conferendo al ruolo dell'allenatore un fascino e una centralità prima mai sperimentate. Chi ricorda i nomi degli allenatori del Real Madrid che aveva appena finito di vincere 5 Coppe dei Campioni consecutive? Ecco, intanto Herrera, con il Barcellona di Kubala e Suarez, quel Real l'aveva battuto due volte per il titolo di campione di Spagna. Ed era stato capace, all'inizio degli anni '50, di vincere due scudetti anche con l'Atletico Madrid. Angelo Moratti l'aveva scelto perché ne aveva riconosciuto le stimmate del vincente. Herrerà, però, del calcio italiano sapeva poco. Al debutto, si era presentato come un offensivista - perché il Barcellona ha sempre avuto una vocazione di quel tipo anche prima di Cruijff - e il suo obiettivo dichiarato era quello di segnare più di 100 gol in campionato: insomma ai ritmi che erano stati soltanto del Grande Torino. Il campo, dove le squadre italiane, pur non tutte, già praticavano un solido calcio di rimessa, suggerì ad Herrera di cambiare spartito. Picchi fu spostato nel ruolo di libero: Herrera ne aveva riconosciuto il carisma, l'innata sapienza calcistica, la facilità di lettura delle azioni, la dote di preveggenza delle traiettorie. Sarebbe divenuto il perno della Grande Inter, specialmente dopo l'arrivo, nel 1961, di Suarez. Picchi, promosso capitano, comandava la difesa e guidava moralmente tutti, Suarez, dirigeva il gioco. E non era catenaccio, perché in quella squadra Facchetti attaccava come un'ala, a centrocampo Corso regalava olio su tela, passeggiando, di Suarez s'è detto, e c'erano gli scatti di Jair e le serpentine ardite di Sandro Mazzola. Attesa e contropiede, a volte, sì. Ma anche attacchi corali contro difese schierate. E, sempre, una solidità difensiva degna de La Rochelle. Quell'Inter, capitanata da Picchi, che telecomandava i compagni della difesa, avrebbe potuto difendere un 1-0 per ore. Arrivarono successi in serie: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Fino al tramonto, improvviso e bruciante del 1967: in pochi giorni una Coppa dei Campioni persa contro il Celtic Glasgow (ma mancava Suarez) e uno scudetto finito alla Juve, per la papera di Sarti contro il Mantova. Herrera e Picchi non si prendevano più. Pare che il Mago fosse geloso della leadership del capitano e del rispetto che i compagni gli portavano. Pare. Picchi andò al Varese. Un anno dopo andò via anche Herrera. E lo stesso Angelo Moratti passò la mano in favore di Fraizzoli. Picchi si preparava ad una grande carriera da allenatore. Prima proprio a Varese, poi nella sua Livorno. Finché lo chiamò Boniperti alla Juve. Prima, però, giocando nella nazionale, durante Italia-Bulgaria del 26 aprile 1968, una caduta rovinosa, la frattura del bacino, una botta tremenda, le cure forse inadeguate. E un dolore che non sarebbe passato più. Fino a diventare un cancro. Il 26 maggio del 1971, mezzo secolo fa, Picchi moriva per un singolarissimo tumore alla costola, dopo aver lasciato - sopraffatto da dolori lancinanti - la panchina della Juve a campionato in corso, dopo che l'Inter aveva appena conquistato il suo undicesimo scudetto. Armando Picchi non aveva ancora compiuto 36 anni. E sono cinquant'anni oggi. Lo stadio del Livorno porta il suo nome.
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venerdì 4 settembre 2020
Perché Giacinto Facchetti è stato un campione unico
Riprendo il titolo del post. Perché Giacinto Facchetti è stato un campione unico? Non solo perché il suo nome compare al terzo posto di una formazione leggendaria, dominatrice in Italia, in Europa e nel mondo a metà dei favolosi anni '60, la Grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera, non solo perché fu il capitano della nazionale italiana campione d'Europa nel 1968 e seconda, dietro il miglior Brasile di sempre, ai mondiali del 1970. No, non solo e non tanto per questo.
Giacinto Facchetti, Inter |
Giacinto Facchetti è stato un campione unico, e irripetibile, perché ha inventato un modo di giocare prima sconosciuto. Perché, schierato terzino sinistro, imperversava sulla fascia fino al fondo del campo avversario, come e più di un'ala, perché segnava come un centravanti - 10 gol su azione nella stagione 1964/65-, perché aveva un fisico dominante che gli consentiva progressioni micidiali e di cui non abusava. Osservateli gli avversari che provassero a contrastarlo, sembravano scolaretti alle prese con un colosso. Eppure sempre corretto, esitava ad affondare un tackle, non sgomitava, non spingeva. Era, naturalmente, più forte. Soffrì anche qualche avversario in carriera e arrivò stremato alla finale del mondiale '70, pagando dazio contro due fenomeni come Carlos Alberto e Jairzinho. Sempre corretto, sempre nobile, sempre elegante. Gli inglesi del Liverpool non si capacitavano di come un terzino potesse devastare in quel modo la loro difesa. Facchetti è stato il primo a giocare in quel modo. Nessuno ha saputo imitarlo. Breitner sarebbe stato un terzino sinistro più tecnico e manovriero, Krol anche, Maldini più abile in difesa, Roberto Carlos più devastante al tiro. Ma quel che faceva Facchetti quando attaccava, quando copriva 70 metri di campo in pochi secondi, con la sua falcata regale da quattrocentista, è rimasto impresso nelle retine e nei ricordi di quelli che lo videro allora e sorprende e sbalordisce coloro che lo rivedano oggi. Forse solo il Gareth Bale dei tempi del Tottenham ha restituito quella sensazione d'impotenza, avvertita dagli avversari, che Facchetti diffondeva ad ogni passo di corsa.
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sabato 20 giugno 2020
Tributo a Mario Corso, "il piede sinistro di Dio"
È uscito dal campo anche Mariolino Corso, l'11 della Grande Inter. Il più svogliato, talentuoso, imprevedibile giocatore di quella squadra irripetibile, che segnò un 'epoca.
Corso era approdato all'Inter a soli 17 anni, nel 1958, quando Angelo Moratti, da tre anni subentrato a Masseroni alla presidenza, cercava con ostinazione la vittoria. Dal 1959, cominciò a trovare posto tra i titolari. E subito gli esperti iniziarono a domandarsi quale fosse il suo ruolo. Sì perché Corso, participio passato del verbo correre, la palla la voleva tra i piedi. Poi, inventava. Chiedeva un triangolo, cambiava gioco, lanciava di prima, batteva a rete o avanzava in dribbling. E, una volta iniziata la progressione, non c'era più modo di fermarlo. Perché la sua falcata era ampia, il controllo del pallone assoluto, cioè sciolto da ogni esterna interferenza. E un difensore che avesse arrischiato un anticipo, avrebbe subíto l'onta del tunnel. Come usava Sivori, che Corso ammirava e che gratificò di due tunnel appena si affrontarono.
Il segreto di Corso stava nella caviglia? Anche, certo. Come quello di McEnroe sarebbe stato nel polso. Strabiliò con le sue punizioni a "foglia morta", che sembravano quelle a "folha seca" di Didì. Con la palla che sormontava la barriera e poi scendeva, anzi s'inabissava nella rete con il portiere immobile. Un prodigio tecnico, che le cronache degli anni '30 riconobbero anche al sommo Meazza. Chi volesse davvero farsi un'idea dell'estro impareggiabile di Mariolino Corso dovrebbe leggere "Il più mancino dei tiri" di Edmondo Berselli, anno 1995. Lì c'è tutto.
Nel 1960, arriva Herrera sulla panchina dell'Inter. E comincia subito con Corso una lunga, ma fertile antipatia. Herrera è un visionario. Opera una rivoluzione: preparazione atletica intensa, esercizi tattici frequenti, rigore alimentare e ricerca dell'intensità. Corso scalpita. Detesta allenarsi e trova insopportabile l'enfasi retorica del Mago. Che parla troppo per i suoi gusti. Non è il solo a pensarla così. Brera lo battezza "Habla Habla". Corso, mentre sprona la squadra, mormora invece un più incisivo: "tasi mona".
Tutti i campionissimi dell'Inter pendono dalle labbra di Herrera. Da Mazzola a Facchetti a Suarez. Tranne due: il capitano Picchi, che in campo si permette di dare ordini diversi da quelli del Mago, e Mario Corso, che porta in campo il calcio della strada, quello istintivo e primordiale. Non corre e men che meno rincorre, gioca dove la tribuna ombreggia il prato e si concede lunghe pause di contemplazione. È un'insubordinazione che Herrera non gli perdona: ogni anno il suo nome è il primo nella lista dei cedibili consegnata ad Angelo Moratti. Ma, Moratti, che aveva accontentato Herrera, mandando via Angelillo, Corso, lo difende. È il suo pupillo. Non solo non va via ma deve giocare titolare. Herrera si adegua. Seguiranno tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Molti i gol decisivi del suo mancino, di più gli assist. Nelle difficoltà, palla a Suarez o palla a Corso. È l'arma tattica più micidiale di quella squadra leggendaria.
Herrera va via nel 1968. Corso resta. E guida l'Inter, con Mazzola e Facchetti e Burgnich e Jair, ad un altro storico scudetto nel 1971 e alla finale di Coppa dei Campioni del 1972, persa contro l'Ajax di Crujff.
In nazionale, Corso gioca. Ma non quanto meriterebbe. Gli si rimprovera l'anarchia tattica. Come al solito. Ha più problemi di Rivera. Nell'ottobre del 1961, la nazionale italiana va in trasferta a Tel Aviv: doppietta di Corso nel 4-2 contro Israele. Il tecnico israeliano, stupito dalle magie di Corso, lo definisce il "piede sinistro di Dio".
Amatissimo dai tifosi, amatissimo dai presidenti, anche Massimo Moratti, condividerà la predilezione del padre, Corso è un simbolo intramontabile dell'Inter e dell'idea dell'Inter. Successore di Skoglund e predecessore di Beccalossi e di Recoba. Gli altri mancini che hanno reso romantica la storia della squadra più romantica.
Giocava con i calzettoni abbassati, Mariolino Corso. Tanto sapeva che i difensori avversari non l'avrebbero preso. Caracollava invece di correre. Poetava, prima che il calcio diventasse prosa. La terra gli sia lieve.
Il segreto di Corso stava nella caviglia? Anche, certo. Come quello di McEnroe sarebbe stato nel polso. Strabiliò con le sue punizioni a "foglia morta", che sembravano quelle a "folha seca" di Didì. Con la palla che sormontava la barriera e poi scendeva, anzi s'inabissava nella rete con il portiere immobile. Un prodigio tecnico, che le cronache degli anni '30 riconobbero anche al sommo Meazza. Chi volesse davvero farsi un'idea dell'estro impareggiabile di Mariolino Corso dovrebbe leggere "Il più mancino dei tiri" di Edmondo Berselli, anno 1995. Lì c'è tutto.
Nel 1960, arriva Herrera sulla panchina dell'Inter. E comincia subito con Corso una lunga, ma fertile antipatia. Herrera è un visionario. Opera una rivoluzione: preparazione atletica intensa, esercizi tattici frequenti, rigore alimentare e ricerca dell'intensità. Corso scalpita. Detesta allenarsi e trova insopportabile l'enfasi retorica del Mago. Che parla troppo per i suoi gusti. Non è il solo a pensarla così. Brera lo battezza "Habla Habla". Corso, mentre sprona la squadra, mormora invece un più incisivo: "tasi mona".
Tutti i campionissimi dell'Inter pendono dalle labbra di Herrera. Da Mazzola a Facchetti a Suarez. Tranne due: il capitano Picchi, che in campo si permette di dare ordini diversi da quelli del Mago, e Mario Corso, che porta in campo il calcio della strada, quello istintivo e primordiale. Non corre e men che meno rincorre, gioca dove la tribuna ombreggia il prato e si concede lunghe pause di contemplazione. È un'insubordinazione che Herrera non gli perdona: ogni anno il suo nome è il primo nella lista dei cedibili consegnata ad Angelo Moratti. Ma, Moratti, che aveva accontentato Herrera, mandando via Angelillo, Corso, lo difende. È il suo pupillo. Non solo non va via ma deve giocare titolare. Herrera si adegua. Seguiranno tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Molti i gol decisivi del suo mancino, di più gli assist. Nelle difficoltà, palla a Suarez o palla a Corso. È l'arma tattica più micidiale di quella squadra leggendaria.
Herrera va via nel 1968. Corso resta. E guida l'Inter, con Mazzola e Facchetti e Burgnich e Jair, ad un altro storico scudetto nel 1971 e alla finale di Coppa dei Campioni del 1972, persa contro l'Ajax di Crujff.
In nazionale, Corso gioca. Ma non quanto meriterebbe. Gli si rimprovera l'anarchia tattica. Come al solito. Ha più problemi di Rivera. Nell'ottobre del 1961, la nazionale italiana va in trasferta a Tel Aviv: doppietta di Corso nel 4-2 contro Israele. Il tecnico israeliano, stupito dalle magie di Corso, lo definisce il "piede sinistro di Dio".
Amatissimo dai tifosi, amatissimo dai presidenti, anche Massimo Moratti, condividerà la predilezione del padre, Corso è un simbolo intramontabile dell'Inter e dell'idea dell'Inter. Successore di Skoglund e predecessore di Beccalossi e di Recoba. Gli altri mancini che hanno reso romantica la storia della squadra più romantica.
Giocava con i calzettoni abbassati, Mariolino Corso. Tanto sapeva che i difensori avversari non l'avrebbero preso. Caracollava invece di correre. Poetava, prima che il calcio diventasse prosa. La terra gli sia lieve.
lunedì 20 aprile 2020
Tributo a Joaquin Peirò
Voglio ricordare, a circa un mese dalla scomparsa, Joaquin Peirò, centravanti spagnolo della Grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Già in forza all'Atletico Madrid, poi sarebbe andato alla Roma, titolare saltuario della nazionale spagnola, giocò nell'Inter dal 1964 al 1966. Gli ultimi anni del boom economico italiano. Di cui l'Inter divenne manifesto proverbiale, come proverbiale sarebbe diventata la sua formazione di Coppa, Peirò giocava solo in Coppa perché in campionato c'era posto solo per due stranieri in campo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Questa squadra, dalla difesa impenetrabile sotto il governo astuto e carismatico del capitano Armando Picchi, era un prodigio di verticalità e di ermetismo calcistico. Tre, quattro passaggi, per ribaltare l'azione e andare a rete. Contropiede fulminei, il lancio di Suarez, lo scatto di Jair o di Sandro Mazzola. Ma, non era solo questo. Perché c'era anche il ciondolare di Mariolino Corso, dal magico sinistro, finta ala, che inventava gioco sulla trequarti e c'erano le progressioni, mai viste prima, del tonitruante Facchetti, terzino ma anche ala, che Brera avrebbe voluto persino centravanti. Il centravanti, invece, in Coppa, era Peirò, rapido, tecnico, svelto. L'Inter campione d'Europa in carica, il 4 maggio del 1965 gioca le semifinali d'andata a Liverpool. Soffre l'atletismo inglese, sostenuto da un tifo pazzesco e perde 3-1: gol della bandiera, e della speranza, di Mazzola. Il 12 maggio, c'è il ritorno. San Siro, non ancora intitolato a Meazza, che è vivo e vegeto, è stracolmo. Una punizione a foglia morta di Corso sblocca il risultato. Raddoppia proprio Peirò, che ruba palla al portiere in palleggio, di sinistro, e segna di destro. Il Liverpool protesta, ma il gol è valido. Sarà poi Facchetti a segnare il gol del 3-0, e della qualificazione, dopo irresistibile discesa. La rete di Peirò diverrà il simbolo di quella rimonta dell'Inter, che poi batterà in finale il Benfica di Eusebio, con gol di Jair.
Joaquin Peirò |
martedì 6 giugno 2017
In memoria di Giuliano Sarti
Vola in cielo un altro eroe della Grande Inter, Giuliano Sarti, classe 1933. Un portiere schivo, pragmatico, essenziale, che fondava il suo gioco sul posizionamento e sul colpo d'occhio. Riluttante ai tuffi spettacolari od alle uscite spericolate, si mise in luce con la Fiorentina, vincendo lo scudetto del 1956, quindi approdò all'Inter di Angelo Moratti e di Helenio Herrera, che stava diventando grande, nel 1963, per vivere l'epopea degli scudetti ('65 e '66), delle Coppe dei Campioni e delle Coppe Intercontinentali. Un suo intervento sfortunato, contro il Mantova, anno di grazia 1967, mise , apparentemente, fine a quella saga leggendaria. E dico apparentemente, perché quell'Inter non è finita e non finirà, sempre viva nel ricordo di chi la vide trionfare in tutto il mondo, e nell'immaginazione di chi ne ha letto o sentito raccontare. Sarti difese anche, otto volte, la porta della nazionale. Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez e Corso. Non solo una formazione. Non solo una filastrocca. No, ma una lunga, lunghissima melodia belliniana.
martedì 16 dicembre 2014
Inter - Celtic Glasgow in Europa League. Come sono lontani i tempi di Jimmy Johnstone, straordinaria ala destra
La primavera del 1967 segnò la fine della Grande Inter. La sconfitta di Mantova, con papera di Sarti e la sconfitta di Lisbona, finale di Coppa dei Campioni, ad opera del Celtic Glasgow di Stein: una squadra che stava diventando leggendaria. Avrebbe vinto nove campionati scozzesi consecutivi, dal 1966 al 1974, era stata semifinalista, eliminata dal Liverpool, in Coppa delle Coppe nel 1966. E dopo il sorprendente successo sull'Inter, 2-1, dopo il vantaggio di Mazzola su rigore, il Celtic sarebbe tornato in finale nel 1970, perdendo contro il Feyenoord, per giocare ancora in semifinale di Coppa dei Campioni nel 1972, sconfitta dall'Inter, e nel 1974, sconfitta dall'Atletico Madrid. Ora, in una competizione meno nobile, l'Europa League, per di più ai sedicesimi, il Celtic torna a sfidare l'Inter. L'occasione ci consente il ricordo del giocatore simbolo di quel Celtic, l'ala destra Jimmy Johnstone, meno di 1,60 m, gracile, ma velocissimo, rapidissimo, scattante, uno dei maggiori interpreti di sempre nel ruolo. La prova provata che il calcio non è solo esercizio da corazzieri. La sintesi del fondamentale più entusiasmante: il dribbling. Ecco qualche immagine di Jimmy Johnstone.
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martedì 25 novembre 2014
Arrivederci ad Aurelio Milani, centravanti della Grande Inter
E' mancato Aurelio Milani, centravanti della Grande Inter di Helenio Herrera e di Angelo Moratti. Possente ed acrobatico, Milani fu anche capocannoniere, con la Fiorentina, a pari merito con Altafini, all'esito della stagione 1961-62. Giunse all'Inter nel 1963, in tempo per vivere le irripetibili avventure europee di una delle squadre più forti di sempre. Segnò un gol meraviglioso, al Prater di Vienna, nella finale di Coppa dei Campioni del 1964, contro il Real Madrid di Di Stefano e Puskas (gli altri due gol nerazzurri, nel 3-1 finale, furono del giovane Sandro Mazzola): Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Che la terra gli sia lieve.
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venerdì 30 novembre 2012
Elzeviro: 2. Sandro Mazzola, immenso fuoriclasse
Con qualche giorno di ritardo, giunge un tributo a Sandro Mazzola per i suoi 70 anni. Bandiera dell'Inter, primo asso, assieme a Rivera e Riva, di statura internazionale, dopo la strepitosa generazione degli anni '30, Sandro Mazzola, che Brera per sintesi chiamava Mazzandro, è stato tra i pochi calciatori capaci di uscire dalla dimensione del campo di gioco e dei quotidiani sportivi, per entrare in quello che la sociologia degli anni '60 chiamava, con non poca enfasi, "immaginario collettivo". Predestinato, figlio di padre illustre, Valentino Mazzola, capitano del Grande Torino, tragicamente scomparso a Superga nel 1949, Sandro Mazzola seppe farsi strada tra lo scetticismo di tanti, che in lui volevano vedere il giovane raccomandato dalla fama paterna. All'Inter lo volle Benito Lorenzi, il rapidissimo attaccante toscano, terrore delle difese avversarie, che del padre era stato amico ed ammiratore. Esordì in serie A alla fine della stagione 1960/61, diciotto anni e mezzo, contro la Juventus. L'Inter per protesta schierava la formazione primavera e Mazzola segnò il gol della bandiera su rigore. Si riaffacciò in prima squadra, per diventare titolare, nella stagione 1962/63, quella del primo scudetto firmato Helenio Herrera ed Angelo Moratti. Non uscì più di squadra fino al 1977, quando si ritirò. Nel mezzo quattro campionati, due Coppe dei Campioni, con la folgorante doppietta al Real Madrid al Prater di Vienna nel 1964, due Coppe Intercontinentali. Fu centravanti, velocissimo, scattante, dal tiro saettante ed improvviso, eseguito con anticipo di movimento, dal dribbling agile e fulmineo, fu mezzala destra di primissimo ordine, costretto in nazionale a contendere il posto a Rivera, ch'era diverso da lui, dando vita ad una delle rivalità più celebri e letterarie della storia dello sport italiano, ala destra alla fine della carriera. Gol meravigliosi, come quello eseguito dopo infiniti palleggi in nazionale contro la Svizzera. Rispettato in tutta Europa, in tutto il mondo. Nove volte candidato al Pallone d'oro, dove fu secondo nel 1971, campione d'Europa nel 1968, vicecampione del Mondo nel 1970. Il suo stile di gioco divenne proverbiale, come proverbiale era stato lo stile, diversissimo, del padre. Quando si pensa alla storia degli anni '60, il nome di Sandro Mazzola si fa subito, tra i primi. Ecco dieci gol tra i suoi più belli.
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