Chioma ricciuta e bionda, ma tinta, su carnagione bruna, fisico tozzo, corsa lenta e svogliata, numero dieci sulle spalle, Carlos Valderrama era un calciatore antico già 30 anni fa. Sudamericano, colombiano, giunse a sommare più 100 partite con la maglia della propria nazionale, partecipando a tre mondiali, tra il 1990 e il 1998, conquistando tre terzi posti in Coppa America e due premi come miglior giocatore sudamericano dell'anno, nel 1987 e nel 1993. Mentre il calcio virava verso l'atletismo puro, si velocizzava e si drammatizzava, Valderrama restava un impassibile e compassato artista della metà campo. Non eseguiva uno scatto, se non per chiudere uno degli innumerevoli triangoli che disegnava sul rettangolo di gioco. Il suo talento era quello dello scacchista: prevedeva, in anticipo, due, tre, quattro mosse successive, due, tre, quattro fotogrammi del film agonistico che si andava svolgendo. E, così, dentro pochi metri, danzava sul pallone, una finta, uno scarto, la palla dal destro al sinistro, il lancio. Di prima. Mandava a vuoto con la solita finta sempre un paio di avversari. E liberava al tiro un compagno. Come un pittore rinascimentale, che passasse a controllare il lavoro dei suoi apprendisti. Gli bastava un tocco solo, molte volte, per mutare il senso e il corso di un'azione, talora di una partita. Un campione di sottrazione. Lento nell'incedere, fulmineo nel pensare, consapevole e regale nell'eseguire.
Carlos Valderrama |