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lunedì 11 marzo 2024

Inzaghi sulle orme di Herrera

Cross di Bastoni, gol di Bisseck. Ora, tutti hanno scoperto il segreto del calcio di Simone Inzaghi. Tutti hanno licenza di attaccare, se un difensore va in attacco, un centrocampista indietreggia. Le posizioni, in campo, mutano a seconda delle necessità, tutti sono esaltati da un'organizzazione che non strozza l'estro e premia l'audacia. Poi, contano i risultati e l'Inter di Inzaghi, che lo scorso anno perse dodici partite in campionato, in questa stagione sta dominando la serie A. E i paragoni con il passato tengono banco. A chi somiglia Inzaghi? A sé stesso, certo. Ognuno è unico, cambiano i tempi e i giocatori e gli avversari. Nulla si replica. Però, se proprio devo accostare Inzaghi a qualcuno, penso a Helenio Herrera. Tanti se ne meraviglieranno. Provo a spiegare.

  1. Herrera arrivò all'Inter nel 1960, reduce da due campionati vinti con il Barcellona contro il Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni consecutive. Quel Barcellona praticava un calcio offensivo, segnava gol a ripetizione, comandava il gioco con due centrocampisti universali come Kubala e Suarez, che un anno dopo avrebbe raggiunto Herrera all'Inter. Una volta a Milano, Herrera promise gol e spettacolo. Spettacolo e più di 100 gol in campionato. Sì, proprio lui, che sarebbe poi passato alla storia come re del catenaccio, della difesa e del contropiede.
  2. La sua prima Inter aveva davvero una grande vocazione offensiva, ma subiva troppo. Herrera imparava dalla sconfitte, imparava sul serio. Si rese conto che sarebbe servito, soprattutto in Serie A, un maggiore equilibrio. Seppe cambiare. Adottò il libero e vi adattò Picchi, che prima era un terzino: una formidabile intuizione. Così inizio a costruire quel mirabile edificio, che sarebbe diventato la Grande Inter.
  3. Herrera, fine psicologo e motivatore ante litteram, seguiva il corso delle sue idee e assumeva rischi. Così inventò Facchetti ala aggiunta, qualcosa di mai osservato prima. In Europa, restarono tutti di sasso, di fronte alle proverbiali galoppate del gigante nerazzurro, un terzino che arrivava sul fondo, crossava e tirava e segnava. Corso, ala sinistra di nome, se ne veniva in mezzo al campo, per liberare spazio a Facchetti. E nonostante l'11 sulle spalle, spesso prendeva palla a destra, si accentrava, scambiava e rifiniva o concludeva. Mazzola, cresciuto centrocampista, con Herrera divenne attaccante. Un attaccante, pure lui, mai visto prima. Una saetta velocissima e dal dribbling secco come il tiro, sempre anticipato. Non giocava spalle alle porta. Suarez, mezzala di talento cristallino, fu spostato davanti alla difesa e con i suoi lanci armava il contropiede di Jair e Mazzola. Fatti noti, certo, ma rivoluzionari a quei tempi. I numeri sulle spalle non dicevano tutto dei ruoli in campo. Si pensi anche a Domenghini, un'ala destra, impostato centravanti.
  4. Inzaghi, 60 e più anni dopo, fa lo stesso. I suoi calciatori possono cercarsi la posizione che più conviene e interpretanoo spesso ruoli inediti, a volte diversi nella medesima partita. L'organizzazione non ne risente, perché se uno sale, l'altro scende, perché in campo si ruota e si sorprende. Anche lui ha fatto di un trequartista, Calhanoglu, prima una mezzala poi un regista arretrato. Mkhitaryan, da sempre trequartista o seconda punta ora è mezzala e metronomo della squadra. I suoi difensori centrali, come è successo contro il Bologna, possono anche costruire e concludere.
  5. Insomma, Inzaghi è un grande allenatore perché, come Herrera, sa proporre soluzioni inaspettate ai suoi calciatori, convincedoli di poterle mettere in pratica, ottenendo da loro il meglio. E gli avversari ci capiscono sempre meno. Da ultimo, anche Inzaghi, come accadde a Herrera con Angelo Moratti, ha saputo correggere la rotta, almeno in campionato, dopo confronti serrati con dirigenza e proprietà. La duttilità è sempre segno d'intelligenza.

lunedì 22 gennaio 2024

Addio a Gigi Riva "Rombo di Tuono"

"Un autentico eroe del nostro tempo: per me non è mai nato nel calcio italiano uno come Gigirriva da Leggiuno. L'ho soprannominato prima Re Brenno e poi, dubitando del nostro senso storico, sono sceso a una metafora più western come "Rombo di tuono". Ha avuto fortuna almeno pari a quella di Toro Seduto". (Gianni Brera)

Nato durante la guerra, come tutta la generazione d'oro di calciatori italiani che s'impose tra gli anni '60 e '70, Luigi Riva, detto Gigi, classe '44, è stato un'icona e un simbolo. Del Cagliari, che condusse a uno storico scudetto nel 1970. Del ruolo di attaccante irriducibile e coraggioso fino quasi alla temerarietà; della nazionale italiana, della quale resta, ancora oggi, il maggior cannoniere con 35 reti. Nato a Leggiuno, sponda lombarda del Lago Maggiore, presto orfano, giunse in Sardegna diciannovenne, per non andarsene più. Alto, per i tempi alto, forte, dotato di un sinistro potentissimo, di un dribbling essenziale, di uno scatto perentorio, di un gran colpo di testa, di audacia agonistica e doti acrobatiche. Centravanti o ala sinistra, attaccante unico nel suo genere. Brera lo soprannominò "Rombo di Tuono". Due gravissimi infortuni con la maglia azzurra, per sfortuna e perché si gettava sempre nella mischia, forse troppo.

Riva in maglia azzurra

Campione d'Europa con gli azzurri  nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970, in Messico. Dove giocò però una finale anonima. Idolo dei tifosi, non solo cagliaritani. Andò oltre il calcio. Lo conoscevano tutti, come conoscevano Mazzola e Rivera. Riva, poi, era anche un beniamino delle donne, che per lui andavano pazze, come 30 anni prima per Meazza. Resta il ricordo del grande calciatore  secondo al Pallone d'oro del 1969 (dietro Rivera e davanti a Gerd Muller), terzo nel 1970 (dietro Gerd Muller e Bobby Moore). Tre volte capocannoniere della serie A e gol che sono diventati proverbiali. Rifiutò sempre di lasciare Cagliari e la Sardegna, rinunciando a ingaggi più ricchi e questa nettezza d'intenzione, questo disinteresse, contribuì ulteriormente alla sua leggenda. 

mercoledì 13 dicembre 2023

La scomparsa di Antonio Juliano, storico capitano del Napoli

Ancora oggi, giorno della sua scomparsa, Antonio Juliano risulta il terzo calciatore più presente nella storia del Napoli, preceduto soltanto da Hamsik e Bruscolotti. Degli azzurri, Juliano fu capitano per dodici stagioni, conquistando per due volte la Coppa Italia, nel 1962 e nel 1976 e sfiorando lo scudetto del 1975, vinto dalla Juve con due soli punti di vantaggio. Quello, in particolare, era il Napoli allenato da Vinicio, di cui Juliano era anima e simbolo. Regista tecnico e compassato ma lucidissimo. Fu convocato in tre mondiali, in un'epoca ricca di qualità e concorrenza nel calcio italiano, che aveva a centrocampo Bulgarelli e De Sisti, ma anche, al netto della loro atipicità, Mazzola e Rivera. Giocò, Juliano, da subentrante, anche la finale dei mondiali messicani del 1970. Fu una bandiera del Napoli, quando di bandiere ancora ce n'erano. 

domenica 9 luglio 2023

Tributo a Luisito Suarez eroe della Grande Inter

Quando, nel 1961, approdò all'Inter di Angelo Moratti, per riabbracciare Helenio Herrera, che lo aveva già allenato al Barcellona, Luis Suarez Miramontes era Pallone d'oro in carica (a oggi l'unico mai conquistato da un calciatore spagnolo). Vinto nel 1960, davanti al leggendario Puskas e al centravanti tedesco Uwe Seeler. Era l'Italia del terzo Governo Fanfani, monocolore democristiano, con l'appoggio esterno dei partiti laici minori e la benevolenza parlamentare di monarchici e socialisti: prove tecniche di centrosinistra. Miracolo economico al suo apice. Spensieratezza diffusa e una fiducia assoluta e ingenua in un progresso, che pareva immancabile. Ai jukebox suonano "Nata per me" di Celentano, "Let's twist again" di Peppino di Capri e "Legata a un granello di sabbia" di Nico Fidenco. Degli afflitti di Manchester - i Beatles - ancora nessuna premonizione. Paragonate il testo della canzone di Fidenco a She Loves you (yeah, yeah, yeah) di un anno dopo e capirete come tutto stesse per saltare in aria. L'Inter non vince lo scudetto dal 1954, l'ultimo della presidenza Masseroni. Moratti ha scelto Herrera un anno prima per riportare i colori nerazzurri al successo che manca da troppo tempo. Il tecnico argentino è un giramondo, a suo modo colto, che capisce prima degli altri l'importanza di una preparazione atletica adeguata allo sforzo e ai gesti del calcio. Sa adattarsi e si adatta. Arrivato a Milano con la fama di allenatore spregiudicato, alla ricerca di tanti gol, scopre il catenaccio e lo porta alla perfezione. Anche narrativa, perché Herrera è un affabulatore - per i detrattori un imbonitore di piazza - e un narratore eclettico e seduttivo. Allena la mente dei calciatori. Li motiva e li esalta fino alla trasfigurazione agonistica. Gli manca ancora un leader tecnico, perché quello caratteriale all'Inter c'è già ed è Armando Picchi. Il libero!

Luisito Suarez

E così chiede e ottiene l'ingaggio di Suarez, classe 1935, dieci e stella del Barcellona e della Spagna. Un regista a tutto campo, duro nei contrasti, intenso nella corsa, tatticamente onniveggente, tecnicamente superbo. I suoi lanci per 40, 50, anche 60 metri, innescano i contropiede micidiali e proverbiali di Mazzola e di Jair. I suoi cambi di campo suggeriscono le discese mai viste di Facchetti. I suoi filtranti attivano il genio sonnolento di Mariolino Corso. Il marchio di fabbrica di quella che diventerà la Grande Inter: laboratorio di un calcio rapidissimo e verticale che si arrampica sul tetto del mondo. Un'icona degli anni '60. Tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin (Tagnin), Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò (Milani, Domenghini), Suarez, Corso: formazione appresa da mio padre e mai più scordata. Squadra immortale, che gira tutta intorno a Suarez. Fantasioso direttore d'orchestra, capace di valorizzarne tutti i solisti. Un moltiplicatore di talento. Luisito  Suarez. Mancato oggi a 88 anni. Ma resterà per sempre. La terra gli sia lieve.


lunedì 6 dicembre 2021

La rivalità tra Inter e Real Madrid

Si tratta di una delle partite di maggior fascino del calcio europeo. Di una rivalità sbocciata nel maggio del 1964 quando, al Prater di Vienna, Milani e Sandro Mazzola, firmarono le reti dello storico primo successo dell'Inter in Coppa dei Campioni, battendo il Real Madrid di Gento e Santamaria, di Alfredo Di Stefano e Puskas. Nacque quella sera la Grande Inter.

Inter-Real Madrid
27 maggio 1964

Nel 1966 i nerazzurri e i blancos s'incrociano di nuovo nella massima competizione continentale. I madrileni vincono nella semifinale d'andata con gol di Pirri. Al ritorno, vantaggio di Amancio pareggiato da Facchetti. Il Real va in finale, che poi vincerà: sarà il sesto alloro. L'anno dopo, di nuovo di fronte, ai quarti di finale, ed è l'Inter a passare il turno. In finale, i nerazzurri, senza Suarez e Corso, saranno sconfitti a sorpresa dal Celtic Glasgow.

Nel 1981, mentre il calcio europeo parla diffusamente inglese, Inter e Real Madrid si ritrovano in semifinale di Coppa dei Campioni. Entrambe sentono il bisogno di rinnovare gli antichi fasti dopo anni di anonimato europeo. All'andata, la squadra di Bersellini perde 2-0 al Bernabeu: gol di Santillana, centravanti che diverrà un totem negativo per i nerazzurri, e Juanito. Al ritorno, il capitano Graziano Bini segna il gol della vittoria, che non vale però il passaggio del turno. Il Real sarà sconfitto in finale dal Liverpool.

Inter e Real Madrid si sfidano altre tre volte nei successivi quattro anni: nel 1983 in Coppa delle Coppe, nel 1985 e nel 1986 nelle semifinali di Coppa Uefa. Passa sempre il Real, segna sempre Santillana. Nel 1985 al Bernabeu, Bergomi viene colpito da una monetina piovuta dagli spalti e lascia il campo nel primo tempo. Il Real ribalta il 2-0 dell'andata e vince 3-0. Il potere politico del Real impedisce la vittoria a tavolino per i nerazzurri. L'anno dopo, Altobelli e Rummenigge vengono massacrati dai difensori avversari, ma l'unico espulso, per reazione, sarà Mandorlini. Finisce 3-1 a Madrid, replica del 3-1 per l'Inter al Meazza. Si va ai supplementari. Segna Santillana, finisce 5-1 per il Real.


Bisogna aspettare la doppietta di Roberto Baggio, girone eliminatorio della Champions League, nell'autunno del 1998, per assistere ad un successo significativo dell'Inter sul Real. Le ultime tre sfide, tra 2020 e 2021, sempre nelle fasi a gironi della Champions, le ha vinte il Real. L'Inter va domani al Bernabeu nelle migliori condizioni possibili, per inseguire un successo che manca da 23 anni. In diciotto confronti, fino ad ora, 7 sono state le vittorie dell'Inter, 9 le vittorie del Real Madrid, due i pareggi. Non so come andrà a finire il prossimo, ma l'Inter dell'ultimo mese non credo che soffrirà il miedo escenico, come ebbe a definirlo Jorge Valdano, del Santiago Bernabeu.

venerdì 18 settembre 2020

Pinamonti è da Inter, come Altobelli nel 1977

La competenza, questa sconosciuta. Molti tifosi dell'Inter, di quelli che stravedono per Conte e Marotta, avanzano dubbi sulle qualità di Pinamonti, che rientra dal Genoa. A costoro, voglio ricordare che, nel 1977, Mazzola, appena passato dal campo alla scrivania, andò a prendere dal Brescia Alessandro Altobelli, detto Spillo, che aveva fatto bene, nemmeno benissimo in serie B. Altobelli, avrebbe compiuto 22 anni a novembre di quell'anno, quale esperienza aveva di serie A e di grande squadra? Mazzola, però, sapeva di calcio. Altobelli divenne il centravanti titolare dell'Inter, per 11 stagioni consecutive, 466 partite e 209 gol, secondo solo a Meazza per reti nerazzurre. Ora, Pinamonti, 21 anni, è probabilmente meno forte di Altobelli, ma comunque ha forza fisica, tecnica notevole, difende bene il pallone, calcia con eguale efficacia con entrambi i piedi, ha già 10 gol in serie A e un curriculum ragguardevole con le giovanili. Arriva come quarta punta. Mi spiegate qual è il problema?

giovedì 9 luglio 2020

Il calcio degli anni '60. La rinascita italiana

Gli anni '60 segnarono il riscatto del calcio italiano, dopo il buio del decennio precedente, contrappuntato da due eliminazioni al primo turno, ai mondiali del 1950 e del 1954, e dalla mancata qualificazione ai mondiali di Svezia del 1958, poi grottescamente replicata 60 anni dopo, quando l'Italia non riuscì ad arrivare a Russia 2018.


Parlavo di riscatto, sì. E le ragioni di questa formidabile ripresa vanno anzitutto ricercate nella resurrezione di tutta la Penisola dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Era l'Italia del boom economico, con i consumi che raddoppiavano, il PIL che cresceva quasi a due cifre, lo sport che diventava fenomeno di massa. Era accaduto, proprio intorno al 1958 peraltro, che il calcio superasse, tra gli appassionati, il ciclismo, per guadagnare un primato mai più discusso di sport nazionale.


Eppure i mondiali del 1962, vinti dal Brasile, che si permise di rinunciare a Pelé, presto infortunato, e quelli del 1966, conquistati in casa dall'Inghilterra, videro ancora gli azzurri fuori al primo turno. Nel 1962, fallì la politica degli oriundi, i fortissimi sudamericani con origini italiane, spesso assai remote. Di quella spedizione fecero parte assi del calibro di Altafini, che aveva vinto il mondiale del 1958 con il Brasile, Sivori, Maschio, Sormani. Andò male, pare anche per le continue ingerenze sulle scelte tecniche della stampa specializzata, che all'epoca aveva, su un calcio visto da pochissimi, un ascendente quasi sacerdotale e per un arbitraggio ostile contro i padroni di casa del Cile. Andò persino peggio nel 1966 in Inghilterra, quando la Corea del Nord eliminò l'Italia, pur con l'attenuante del precoce infortunio occorso a Bulgarelli, quando, ancora per pochi anni, non erano permesse le sostituzioni.

Eppure l'Italia aveva iniziato a dominare le competizioni internazionali per club, vincendo tre Coppe dei Campioni consecutivamente: con il Milan di Rivera e Cesare Maldini e Altafini e Trapattoni, nel 1963; con l'Inter allenata da Herrera e capitanata da Picchi, nel 1964 e nel 1965, con la regia di Suarez, gli assolo in velocità di Mazzola e Jair, i ricami mancini di Corso, ed una difesa così riconoscibile da diventare leggendaria e proverbiale: Sarti, Burgnich, Facchetti...La Grande Inter.
File:Formazione dell'Inter 1964-1965.jpg - Wikipedia
La Grande Inter (1964/65)

Il Real Madrid, che pure vinse la sua sesta Coppa dei Campioni nel 1966, eliminando l'Inter in semifinale, cominciava a declinare dopo il dominio della seconda metà degli anni '50. Sorgeva invece la stella del Manchester United di Busby e di Bobby Charlton, entrambi miracolosamente sopravvissuti al disastro di Monaco di Baviera, paragonabile alla tragedia di Superga, nel quale avevano perso la vita molti giovani talenti di sicuro avvenire, su tutti Duncan Edwards. La squadra inglese vinse il campionato nazionale nel 1965, poi di nuovo nel 1967 fino al successo più eclatante, quello nella Coppa dei Campioni del 1968: in avanti il trio delle meraviglie, la mezzala scozzese dal gol facilissimo, Denis Law, il centravanti inglese più tecnico e manovriero che si ricordi, Bobby Charlton, e l'ala destra nordirlandese, George Best, talento purissimo, estro senza freni, vita dissipata e gol magnifici. 
File:The United Trinity, George Best, Denis Law and Bobby Charlton ...
Statue di Best, Law e Bobby Charlton

Forse il giocatore più rappresentativo di questa magica decade fu però il portoghese, di origini mozambicane, Eusebio, poderoso centravanti dalla tecnica brasiliana, dalla progressione micidiale e dal tiro incendiario. Vinse, con il suo Benfica, la seconda Coppa dei Campioni consecutiva del 1962 e trascinò il Portogallo al terzo posto ai mondali del 1966 in Inghilterra, laureandosi capocannoniere con 9 gol. 
File:Eusebio (1963).jpg - Wikipedia
Eusebio (Portogallo)


Insieme a lui, il portiere sovietico Lev Jashin, campione d'Europa nel 1960, sempre vestito di nero, dal fisico imponente e i riflessi da gatto, per molti il miglior portiere di sempre. Ancora oggi si favoleggia sulle presunte doti ipnotiche esercitate sugli avversari. Sandro Mazzola ha più volte confermato questa leggenda, ricordando un rigore che Jashin gli parò in nazionale.
File:Lev Yashin 1960b.jpg - Wikipedia
Lev Jashin (URSS)


Nel 1960, furono organizzati i primi Campionati Europei per nazionali: vinse l'URSS. Nel 1964 toccò alla Spagna di Suarez e Gento. Nel 1968, 30 anni dopo il successo ai mondiali di Francia, toccò all'Italia allenata da Ferruccio Valcareggi. Che ebbe ragione in finale della Jugoslavia, dopo aver vinto il sorteggio con la monetina nella semifinale con l'URSS. Sorteggio vinto dal capitano Facchetti. La prima finale con la Jugoslavia finì in pareggio. Non essendo previsti i supplementari né, tanto meno, i rigori. Si rigiocò: vinse l'Italia con gol di Gigi Riva ed Anastasi. Per la prima volta, una massa di tifosi si riversò per le strade a festeggiare, sventolando bandiere tricolori. C'erano già state le occupazioni delle Università e le prime grandi manifestazioni studentesche. Di lì a poco, si sarebbero diffusi disordine e tumulti di piazza, contestazione generalizzata. Fu l'ultimo sprazzo di serenità prima che cominciasse uno dei periodi più bui e controversi della storia italiana.
File:Euro 1968 - Italia campione d'Europa.jpg - Wikipedia
Italia campione d'Europa nel 1968

Negli anni '60, ma fu questione specialmente, sebbene non solo, italiana, infuriò una serrata disputa sulla tattica. Fu allora che si cominciò a parlare di calcio all'italiana, talora, con sprezzatura, definito catenaccio, per contrapporlo al calcio più offensivo praticato dalle squadre del Nord Europa, Inghilterra in testa, o, in modo più tecnico e meno fisico, dal Brasile. Brera capeggiava i cosiddetti italianisti, convinti, sulla base di valutazioni culturali e biologiche spinte, che gli italiani fossero più acconci alla difesa e contropiede, che all'attacco con dominio del gioco. Troppi secoli di dominazioni subite e doti atletiche ritenute inferiori a quelle di popoli meglio nutriti e sviluppati. Era questa la tesi, molto politicamente scorretta. Dall'altra parte, la cosiddetta scuola napoletana, di Ghirelli e Palumbo, che inneggiava ad un calcio più offensivo e spensierato, eleggendone a simbolo Rivera ed il suo gioco compassato ma elegantissimo. La questione, sotto altre forme, e con l'ausilio di penne meno felici, dura ancora oggi.

sabato 20 giugno 2020

Tributo a Mario Corso, "il piede sinistro di Dio"

È uscito dal campo anche Mariolino Corso, l'11 della Grande Inter. Il più svogliato, talentuoso, imprevedibile giocatore di quella squadra irripetibile, che segnò un 'epoca.

Corso era approdato all'Inter a soli 17 anni,  nel 1958, quando Angelo Moratti, da tre anni subentrato a Masseroni alla presidenza, cercava con ostinazione la vittoria. Dal 1959, cominciò a trovare posto tra i titolari. E subito gli esperti iniziarono a domandarsi quale fosse il suo ruolo. Sì perché Corso, participio passato del verbo correre, la palla la voleva tra i piedi. Poi, inventava. Chiedeva un triangolo, cambiava gioco, lanciava di prima, batteva a rete o avanzava in dribbling. E, una volta iniziata la progressione, non c'era più modo di fermarlo. Perché la sua falcata era ampia, il controllo del pallone assoluto, cioè sciolto da ogni esterna interferenza. E un difensore che avesse arrischiato un anticipo, avrebbe subíto l'onta del tunnel. Come usava Sivori, che Corso ammirava e che gratificò di due tunnel appena si affrontarono.

Il segreto di Corso stava nella caviglia? Anche, certo. Come quello di McEnroe sarebbe stato nel polso. Strabiliò con le sue punizioni a "foglia morta", che sembravano quelle a "folha seca" di Didì. Con la palla che sormontava la barriera e poi scendeva, anzi s'inabissava nella rete con il portiere immobile. Un prodigio tecnico, che le cronache degli anni '30 riconobbero anche al sommo Meazza. Chi volesse davvero farsi un'idea dell'estro impareggiabile di Mariolino Corso dovrebbe leggere "Il più mancino dei tiri" di Edmondo Berselli, anno 1995. Lì c'è tutto.

Nel 1960, arriva Herrera sulla panchina dell'Inter. E comincia subito con Corso una lunga, ma fertile antipatia. Herrera è un visionario. Opera una rivoluzione: preparazione atletica intensa, esercizi tattici frequenti, rigore alimentare e ricerca dell'intensità. Corso scalpita. Detesta allenarsi e trova insopportabile l'enfasi retorica del Mago. Che parla troppo per i suoi gusti. Non è il solo a pensarla così. Brera lo battezza "Habla Habla". Corso, mentre sprona la squadra, mormora invece un più incisivo: "tasi mona".

Tutti i campionissimi dell'Inter pendono dalle labbra di Herrera. Da Mazzola a Facchetti a Suarez. Tranne due: il capitano Picchi, che in campo si permette di dare ordini diversi da quelli del Mago, e Mario Corso, che porta in campo il calcio della strada, quello istintivo e primordiale. Non corre e men che meno rincorre, gioca dove la tribuna ombreggia il prato e si concede lunghe pause di contemplazione. È un'insubordinazione che Herrera non gli perdona: ogni anno il suo nome è il primo nella lista dei cedibili consegnata ad Angelo Moratti. Ma, Moratti, che aveva accontentato Herrera, mandando via Angelillo, Corso, lo difende. È il suo pupillo. Non solo non va via ma deve giocare titolare. Herrera si adegua. Seguiranno tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Molti i gol decisivi del suo mancino, di più gli assist. Nelle difficoltà, palla a Suarez o palla a Corso. È l'arma tattica più micidiale di quella squadra leggendaria. 

Herrera va via nel 1968. Corso resta. E guida l'Inter, con Mazzola e Facchetti e Burgnich e Jair, ad un altro storico scudetto nel 1971 e alla finale di Coppa dei Campioni del 1972, persa contro l'Ajax di Crujff.

In nazionale, Corso gioca. Ma non quanto meriterebbe. Gli si rimprovera l'anarchia tattica. Come al solito. Ha più problemi di Rivera. Nell'ottobre del 1961, la nazionale italiana va in trasferta a Tel Aviv: doppietta di Corso nel 4-2 contro Israele. Il tecnico israeliano, stupito dalle magie di Corso, lo definisce il "piede sinistro di Dio".

Amatissimo dai tifosi, amatissimo dai presidenti, anche Massimo Moratti, condividerà la predilezione del padre, Corso è un simbolo intramontabile dell'Inter e dell'idea dell'Inter. Successore di Skoglund e predecessore di Beccalossi e di Recoba. Gli altri mancini che hanno reso romantica la storia della squadra più romantica. 

Giocava con i calzettoni abbassati, Mariolino Corso. Tanto sapeva che i difensori avversari non l'avrebbero preso. Caracollava invece di correre. Poetava, prima che il calcio diventasse prosa. La terra gli sia lieve.


lunedì 20 aprile 2020

Tributo a Joaquin Peirò

Voglio ricordare, a circa un mese dalla scomparsa, Joaquin Peirò, centravanti spagnolo della Grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Già in forza all'Atletico Madrid, poi sarebbe andato alla Roma, titolare saltuario della nazionale spagnola, giocò nell'Inter dal 1964 al 1966. Gli ultimi anni del boom economico italiano. Di cui l'Inter divenne manifesto proverbiale, come proverbiale sarebbe diventata la sua formazione di Coppa, Peirò giocava solo in Coppa perché in campionato c'era posto solo per due stranieri in campo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Questa squadra, dalla difesa impenetrabile sotto il governo astuto e carismatico del capitano Armando Picchi, era un prodigio di verticalità e di ermetismo calcistico. Tre, quattro passaggi, per ribaltare l'azione e andare a rete. Contropiede fulminei, il lancio di Suarez, lo scatto di Jair o di Sandro Mazzola. Ma, non era solo questo. Perché c'era anche il ciondolare di Mariolino Corso, dal magico sinistro, finta ala, che inventava gioco sulla trequarti e c'erano le progressioni, mai viste prima, del tonitruante Facchetti, terzino ma anche ala, che Brera avrebbe voluto persino centravanti. Il centravanti, invece, in Coppa, era Peirò, rapido, tecnico, svelto. L'Inter campione d'Europa in carica, il 4 maggio del 1965 gioca le semifinali d'andata a Liverpool. Soffre l'atletismo inglese, sostenuto da un tifo pazzesco e perde 3-1: gol della bandiera, e della speranza, di Mazzola. Il 12 maggio, c'è il ritorno. San Siro, non ancora intitolato a Meazza, che è vivo e vegeto, è stracolmo. Una punizione a foglia morta di Corso sblocca il risultato. Raddoppia proprio Peirò, che ruba palla al portiere in palleggio, di sinistro, e segna di destro. Il Liverpool protesta, ma il gol è valido. Sarà poi Facchetti a segnare il gol del 3-0, e della qualificazione, dopo irresistibile discesa. La rete di Peirò diverrà il simbolo di quella rimonta dell'Inter, che poi batterà in finale il Benfica di Eusebio, con gol di Jair. 
File:Joaquín Peiró - FC Internazionale 1964-65.JPG - Wikipedia
Joaquin Peirò

giovedì 5 marzo 2020

Pallone d'oro 1971: 1. Cruijff 2. S. Mazzola 3. Best. La storia

  • Nel 1971 il Pallone d'oro premiò, per la prima volta dalla sua istituzione, un calciatore olandese, il magnifico 10, che però giocava con il numero 14, dell'Ajax e della nazionale dei tulipani, Johann Cruijff. Classe 1947, atleta ed artista, a dispetto dei piedi piatti, che parevano non predire, quando era un ragazzo, una carriera ai livelli più alti. Magro ma forte, aveva corsa e tocco, superiori doti di coordinazione, tiro secco e preciso, il gusto della giocata imprevista, magari inedita, come il famigerato turn Cruijff, uno dei tanti dribbling da lui escogitati ed eseguiti, e visione di gioco e leadership naturale. Aveva un rivale per il ruolo di capo carismatico all'Ajax, Peter Keizer, centravanti massiccio ma tecnico, che gli avrebbe strappato la fascia di capitano, dopo elezioni dello spogliatoio, nel 1973, costringendo Cruijf, risentito per lesa maestà, la sua, a lasciare Amsterdam per Barcellona. Il calcio olandese, quando Cruijff fu premiato nel 1971, dopo la vittoria della Coppa dei Campioni contro il Panathinaikos, allenato, pensate un poco, da un certo Puskas, era in crescita da alcuni anni. E l'anno prima il Feyenoord di Rotterdam aveva vinto a propria volta la Coppa  dei Campioni contro il Celtic Glasgow di Jimmy Johnstone. Prove tecniche di calcio totale in corso da tempo, aiutate da un'eccezionale fioritura di talenti, forgiati da una scuola tecnica severissima e nozioni tattiche non nuove, ma rinnovate, intese alla migliore, costante occupazione dello spazio.
  • Al secondo posto, si piazzò Sandro Mazzola, già fulmineo attaccante della Grande Inter di Herrera, già superbo finalizzatore dei contropiede orchestrati da Suarez quando il calcio all'italiana si faceva scuola, che, dal 1967 si era messo ad agire da mezzala, più per seguire le orme affettive del padre Valentino, insuperato dieci del Torino anni '40,  facendo valere il tocco sapiente, il dribbling facilissimo, il tiro improvviso. Mentre contendeva a Cruijff il titolo di miglior giocatore continentale, stava guidando l'Inter di Invernizzi ad un'incredibile rimonta in campionato, assieme ad altri giovani reduci della Grande Inter come Facchetti, Burgnich, Corso e Jair. 
  • Al terzo posto, si classificò, George Best, magnifica ala del Manchester United, il quinto Beatle, un irregolare incline a mille eccessi fuori dal campo e un talento purissimo in campo, ala destra seconda solo a Garrincha, virtuoso del dribbling, tiro secco e preciso e anche stacco di testa in terzo tempo. A 26 anni fu, incredibile a dirsi, il suo canto del cigno.

martedì 25 novembre 2014

Arrivederci ad Aurelio Milani, centravanti della Grande Inter

E' mancato Aurelio Milani, centravanti della Grande Inter di Helenio Herrera e di Angelo Moratti. Possente ed acrobatico, Milani fu anche capocannoniere, con la Fiorentina, a pari merito con Altafini, all'esito della stagione 1961-62. Giunse all'Inter nel 1963, in tempo per vivere le irripetibili avventure europee di una delle squadre più forti di sempre. Segnò un gol meraviglioso, al Prater di Vienna, nella finale di Coppa dei Campioni del 1964, contro il Real Madrid di Di Stefano e Puskas (gli altri due gol nerazzurri, nel 3-1 finale, furono del giovane Sandro Mazzola): Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Che la terra gli sia lieve.

sabato 17 maggio 2014

Storia dei mondiali di calcio: 10^ puntata (1970, in Messico vince il Brasile, Italia seconda)

Altro che quattro, quattro, due, disponibilità al sacrificio, culto ossessivo del gruppo, diagonali, fuorigioco e sciocchezze assortite sul tema. Il Brasile del 1970, la più straordinaria squadra della storia del calcio, mai avrebbe visto la luce in questi tempi. Dopo la cocente delusione del 1966, il Brasile aveva in testa un solo obiettivo, vincere i campionati del mondo del 1970, organizzati dal Messico. Che già aveva accolto le Olimpiadi del 1968. Una singolare coincidenza voleva che ci fossero contemporaneamente cinque straordinari numeri dieci nel campionato verdeoro. Un qualunque allenatore di scuola sacchiana ne avrebbe fatto giocare uno soltanto. Zagallo, nel frattempo divenuto commissario tecnico, osò invece schierarli tutti assieme. Il dieci, con tutte le conseguenze del ruolo, cadde, noblesse oblige, sulle spalle di Pelé. Tostao si adattò come centravanti, Gerson arretrò in cabina di regia, Jarzinho andò all'ala destra, Rivelino all'ala sinistra. Un magnifico assieme di artisti del pallone, dribbling, tiro, giocate di prima. Quelli che nelle squadre di club erano tenori chiamati al do di petto, seppero cantare in coro come mai prima. L'Italia, campione d'Europa in carica, aveva tante stelle, da Mazzola e Rivera, chiamati dopo i quarti ad una sciocca staffetta, a Riva e Boninsegna, che nel Cagliari fino ad un anno prima bisticciavano e che in quell'estate trovarono una grande intesa, da Facchetti, a De Sisti, a Burgnich a Domenghini. In semifinale, contro la Germania Ovest, la partita era vinta allo scadere dei tempi regolamentari. Fu un gol di Schnellinger su dormita della difesa azzura a riaprire i giochi. Mazzola era uscito alla fine del primo tempo. Al suo posto Rivera. Nei supplementari colpi di scena a ripetizione, errori, gol, rimonte, fino al gol decisivo di Rivera per un 4-3 finale rimasto leggendario. Festa in tutta Italia e tricolori sventolanti nelle piazze: era la prima volta nel dopoguerra. Nell'altra semifinale, il Brasile ebbe ragione dell'Uruguay. In finale, il Brasile passò con un folgorante colpo di testa di Pelé, pareggio di Boninsegna. Dopo un'ora di gioco, l'Italia aveva tenuto botta. Poi, i brasiliani dilagarono. Gerson dalla distanza, Jarzinho con un diagonale dei suoi, infine il capitano verdeoro Carlos Alberto, all'esito di un'azione magistralmente diretta da Pelé. Terzo mondiale per il Brasile, che si aggiudicò definitivamente la Coppa Rimet. Capocanniere del torneo, il centravanti tedesco Gerd Muller, un torello implacabile in area di rigore, autore di dieci gol. (1^ puntata2^ puntata3^ puntata4^ puntata5^ puntata, 6^ puntata7^ puntata8^ puntata9^ puntata, 10^ puntata, 11^ puntata)