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martedì 9 gennaio 2024

Franz Beckenbauer: il libero!

I tedeschi sono stati letteralmente inventati da Tacito. Che senza mai essere stato nella c.d. Germania storica, scrisse "De origine et situ Germanorum", opera etnografica, con molte concessioni che oggi potremmo definire romantiche, che fissò i canoni e fotografò l'anima di una nazione tedesca, prima che questa esistesse. Franz Beckenbauer, non a caso soprannominato, Kaiser, Cesare, era non solo tedesco ma anche un romano post litteram. Comandava, in mezzo al campo, come il capo di una legione, venendo prontamente obbedito da tutti i compagni e parimenti temuto da tutti gli avversari. Prima centrocampista, finalista ai mondiali inglesi del 1966, poi, nel Bayern Monaco e in nazionale, libero, in italiano, perché il ruolo pur accennato in Svizzera negli anni '30, era stato cesellato in Italia e condotto a visibilità da Cesare Maldini, nel Milan, e, più ancora, da Armando Picchi nell'Inter di Helenio Herrera. A quel ruolo, Beckenbauer, dotato di tecnica sublime e di lucidissima visione del gioco, aggiunse di suo un'interpretazione offensiva e audace, persino sfacciata, che non solo gli faceva iniziare, recuperato il pallone, tutte le azioni, ma che lo portava persino a concludere, dopo perentorie discese palla al piede. Palla che non guardava mai, non avendone bisogno, la testa sempre alta. Dopo di lui, si sarebbe parlato di libero "alla tedesca": Stielike, ma anche Matthaeus e Thoen a fine carriera, Sammer s'ispirarono a Beckenbauer. Come pure, in Italia, Scirea e Franco Baresi. Vinse moltissimo, cinque volte la Bundesliga, tre volte la Coppa dei Campioni, dal 1974 al 1976, gli Europei nel 1972 e poi i mondiali di casa, nel 1974. Contro l'Olanda di Cruijff, che fu il suo rivale mediatico nei primi anni '70. L'Olanda incarnava lo spirito dei tempi, lo Zeitgeist, la ribellione alle convenzioni, il rifiuto di ruoli prestabiliti, il tourbillon come filosofia di gioco. La Germania di Beckenbauer era, invece, un concentrato di forza e di tenacia, di rifiuto ingenuo, ecco tacitiano, della sconfitta, esaltato dall'elegantissima leadership di Kaiser Franz. Fu due volte Pallone d'Oro e concluse la carriera ai Cosmos di New York. Rivinse i mondiali da commissario tecnico nel 1990, dopo la sconfitta in finale del 1986. L'ultimo successo della Germania Ovest, prima della riunificazione. Poi fortunato dirigente del suo Bayern. Un'icona del calcio. 

lunedì 4 maggio 2020

Perché il Grande Torino fu così grande?

Sono rimasti in trasferta, per riprendere il toccante finale dell'articolo con il quale Montanelli ricordò la tragica scomparsa, sulla collina di Superga, del Grande Torino, di Novo ed Herbstein, avvenuta giusto 71 anni fa. Di quella squadra leggendaria si è scritto di tutto. Si è raccontato tutto. Ma, perché, calcisticamente, fu così grande? Provo a spiegarlo in tre punti.

  • Anzitutto, una generazione irripetibile di talenti. Il presidente Novo voleva i migliori e li ebbe. Valentino Mazzola su tutti, giocatore universale prima di De Stefano e di Cruijff. Leader tecnico e carismatico, baricentro basso, mancino ma abilissimo con il destro, coriaceo nei contrasti, devastante in progressione, suggeritore e finalizzatore. Quando trovi un simile campione, il resto viene di conseguenza. E il "brasiliano" Maroso sulla sinistra. E il "gemello" di Mazzola, Loik. Il centravanti Gabetto, il mediano Grezzar, l'ala Ossola. Tutti fuoriclasse, tutti assieme.
  • Il gioco nuovo. Un'applicazione originale del Sistema nell'Italia del Metodo. Meno lanci, molti più passaggi secondo la filosofia danubiana. Allenamenti individuali mirati, per rinforzare il piede debole, ritiri, preparazione atletica intensa. E l'importanza del movimento senza palla. Quello che apre e favorisce nuove linee di passaggio. E muoversi, invece di aspettare palla addosso, significa mutare posizione, sparigliare, confondere gli avversari. Il calcio totale, che già era stato sperimentato in Svizzera per la verità, si consolida con il Grande Torino. Mazzola, in campo, puoi trovarlo ovunque. Ovunque serva.
  • Il secondo dopoguerra. C'è un'energia nell'aria dell'Italia della ricostruzione. C'è un desiderio di rivincita e di ripresa. Il Torino lo incarna naturalmente. Ha un carattere indomabile. Di qui le rimonte proverbiali. Si tratta di una squadra vera, che si muove come un blocco unico. Insomma, ha un'anima, che avvince e tiene assieme tutti i giocatori.

giovedì 9 aprile 2020

L'eleganza di Michael Laudrup, il maestro del dribbling a due tocchi

Anno di grazia 1983. La serie A di calcio è il campionato più bello e più competitivo del mondo. Giungono da tutto il mondo i migliori giocatori e tanti già ci sono. Arriva pure, alla Lazio neopromossa, un diciannovenne danese, Michael Laudrup, ma in prestito, perché il suo cartellino appartiene alla Juventus: Boniperti, che quando giocava ne ebbe parecchi, e forti, di danesi in squadra, scommette sul suo futuro di campione. Il problema è trovargli un ruolo. Laudrup è alto 1,83 m, ha un fisico asciutto, gambe forti e reattive. Eccelle nel dribbling, ha uno scatto fulmineo. Pensano in molti che sia una seconda punta. Ma, segna poco. Anche quando, nel 1985, si trasferisce alla Juve, per sostituire Boniek. Platini lo fulmina con un giudizio splendido ma feroce: il più grande giocatore del mondo, in allenamento. Con i bianconeri gioca quattro stagioni da eterna promessa, fino al 1989. E la serie A lo saluta come un incompiuto, privo di grande personalità. Lo prende, però, e non è un caso, il Barca di Cruijff il magnifico. Avviene la svolta. Laudrup con i blaugrana inizia ad interpretare il suo ruolo naturale: la mezzala. Comanda il gioco offensivo, dribbla con naturalezza disarmante, segna con quel suo tiro secco, improvviso, anticipato. Non è barocco, sebbene tecnicamente superiore. Questo lo rende molto apprezzato da Cruijff. Il Barca vince tutto, in Spagna, in Europa e nel mondo. Solo nel 1994, finale di Coppa dei Campioni contro il Milan, la regola dei tre stranieri in campo, e un errore di valutazione del tecnico olandese tiene Michael Laudrup fuori da una partita che il Barcellona perde a sorpresa per 4-0. Senza il danese, il centrocampo catalano è lento e prevedibile. Laudrup poi andrà al Real Madrid, vincendo un'altra Liga, quindi in Giappone, per chiudere nell'Ajax che era stato di Cruijff. Manca il successo agli Europei di Svezia del 1992, perché aveva temporaneamente abbandonato la nazionale danese. Il suo congedo avviene ai mondiali di Francia del 1998. Quarti di finale contro il Brasile. Tolto Ronaldo, il più brasiliano in campo, per tocco ed estro e fantasia è proprio il danese Laudrup. L'eleganza applicata al gioco del calcio. Quell'eleganza, anche nel tratto e nei comportamenti, che fuorviò molti giudizi su di lui. Laudrup era un gentiluomo che si scaldava poco. Ma accendeva il gioco. Chiedete ai giocatori, passati e presenti chi sia stato il miglior giocatore della Liga nei primi anni '90. Risponderanno, anzi hanno tutti già risposto, Michael Laudrup. Il suo dribbling a due tocchi (the two-touch dribble), sempre lo stesso, con palla spostata a velocità massima dal destro al sinistro, ha fatto scuola. Quasi quanto la finta di Garrincha.

lunedì 30 marzo 2020

Pallone d'oro 1972: 1. Beckenbauer. 2. Gerd Muller 3. Netzer

La Germania Ovest vince i campionati europei del 1972 e piazza tre giocatori in cima alla classifica del pallone d'oro. Franz Beckenbauer vince, è il Kaiser, dal latino Caesar, con la c pronunciata dura, è un elegantissimo libero, già superbo centrocampista, che reinventa il ruolo reso illustre da Picchi. Legge in anticipo le traiettorie, domina nel gioco aereo ed esce palla al piede, con finte e dribbling. Comanda il gioco, muovendo dalle retrovie. E, qualche volta, attraversa tutto il campo fino a battere a rete. Il libero alla tedesca. Dopo di lui verranno Stielike ma anche Matthaus, Schuster e Thoen, dopo gloriose stagioni spese a centrocampo, e Sammer. Secondo Gerd Muller, centravanti brevilineo, tozzo e sgraziato, mortifero in aera di rigore, sempre in anticipo sui difensori. Un goleador tremendo. Terzo è Gunther Netzer, che, per una volta, gioca al posto del grande rivale Overath, mancino compassato ed elegante, tutto raziocinio, mentre Netzer è un dieci potente, dalla grande progressione e dal tiro violento e preciso. Ha 48 di piede, eppure un controllo assoluto del pallone. Johann Cruijff è solo quarto, davanti al grande rivale nel suo Ajax, Keizer. Un litigio fra i due, per la fascia di capitano, farà sì che Crujff, l'anno dopo, lasci Amsterdam per Barcellona.

giovedì 5 marzo 2020

Pallone d'oro 1971: 1. Cruijff 2. S. Mazzola 3. Best. La storia

  • Nel 1971 il Pallone d'oro premiò, per la prima volta dalla sua istituzione, un calciatore olandese, il magnifico 10, che però giocava con il numero 14, dell'Ajax e della nazionale dei tulipani, Johann Cruijff. Classe 1947, atleta ed artista, a dispetto dei piedi piatti, che parevano non predire, quando era un ragazzo, una carriera ai livelli più alti. Magro ma forte, aveva corsa e tocco, superiori doti di coordinazione, tiro secco e preciso, il gusto della giocata imprevista, magari inedita, come il famigerato turn Cruijff, uno dei tanti dribbling da lui escogitati ed eseguiti, e visione di gioco e leadership naturale. Aveva un rivale per il ruolo di capo carismatico all'Ajax, Peter Keizer, centravanti massiccio ma tecnico, che gli avrebbe strappato la fascia di capitano, dopo elezioni dello spogliatoio, nel 1973, costringendo Cruijf, risentito per lesa maestà, la sua, a lasciare Amsterdam per Barcellona. Il calcio olandese, quando Cruijff fu premiato nel 1971, dopo la vittoria della Coppa dei Campioni contro il Panathinaikos, allenato, pensate un poco, da un certo Puskas, era in crescita da alcuni anni. E l'anno prima il Feyenoord di Rotterdam aveva vinto a propria volta la Coppa  dei Campioni contro il Celtic Glasgow di Jimmy Johnstone. Prove tecniche di calcio totale in corso da tempo, aiutate da un'eccezionale fioritura di talenti, forgiati da una scuola tecnica severissima e nozioni tattiche non nuove, ma rinnovate, intese alla migliore, costante occupazione dello spazio.
  • Al secondo posto, si piazzò Sandro Mazzola, già fulmineo attaccante della Grande Inter di Herrera, già superbo finalizzatore dei contropiede orchestrati da Suarez quando il calcio all'italiana si faceva scuola, che, dal 1967 si era messo ad agire da mezzala, più per seguire le orme affettive del padre Valentino, insuperato dieci del Torino anni '40,  facendo valere il tocco sapiente, il dribbling facilissimo, il tiro improvviso. Mentre contendeva a Cruijff il titolo di miglior giocatore continentale, stava guidando l'Inter di Invernizzi ad un'incredibile rimonta in campionato, assieme ad altri giovani reduci della Grande Inter come Facchetti, Burgnich, Corso e Jair. 
  • Al terzo posto, si classificò, George Best, magnifica ala del Manchester United, il quinto Beatle, un irregolare incline a mille eccessi fuori dal campo e un talento purissimo in campo, ala destra seconda solo a Garrincha, virtuoso del dribbling, tiro secco e preciso e anche stacco di testa in terzo tempo. A 26 anni fu, incredibile a dirsi, il suo canto del cigno.

giovedì 13 febbraio 2020

Il calcio degli anni '70: da Pelé a Cruijff, da Cubillas a Figueroa

Il calcio degli anni '70 è spesso dimenticato, con l'eccezione di rievocazioni occasionali e per se stesse insufficienti, tanto che molti dei maggiori protagonisti di quell'epoca ancora romantica della pelota sono per lo più degli sconosciuti per le nuove generazioni. Proviamo a rimediare? 

  • Gli anni '70 cominciano con i mondiali messicani, che vedono il successo del maggior campione del decennio precedente, Pelé, guida tecnica del Brasile delle meraviglie, che mette assieme a lui altri quattro numeri 10, Gerson, Jairzinho, Tostao e Rivelino. Un caleidoscopio di classe allo stato puro, con cui il tecnico verdeoro Zagallo smentisce in una volta sola tutte le più scombinate teorie sugli equilibri, il gruppo e la tattica. La prevalenza del talento! Tanto più che il terzino destro, Carlos Alberto, è un fantasista egli pure, dal tocco prezioso e dalla corsa possente, mentre la direzione del gioco è affidato alla ventunenne stella del Santos di Pelé, Clodoaldo. C'è un filmato della finale, che mostra Clodoaldo uscire dal pressing italiano con quattro dribbling consecutivi, con massima eleganza, senza sforzo.

  • Il calcio totale d'Olanda è una rivoluzione, che abbaglia e frastorna. C'è del bello nella novità. Giocatori polivalenti, tutti addestrati fin dalle giovanili al possesso del pallone e alla consapevolezza tecnica, tutti capaci d'interpretare più ruoli e di scambiarsi le posizioni in campo. Ma, c'è anche un equivoco, sottostimato. Nel paese dei tulipani, per una congiura di circostanze fortunate, è fiorita, attorno al magnifico Cruijff, una generazione di talenti irripetibile: Neeskens, Rep, Rensenbrink, Krol, Van Hanegem. E si potrebbe continuare. Non a caso, al tramonto di quest'epoca bella, l'Olanda, dopo i secondi posti ai mondiali del 1974 e del 1978, fallirà le qualificazioni a Spagna 1982 e Messico 1986. Come a dire che l'organizzazione del gioco è sì importante ma non può supplire al valore degli interpreti.

  • Il calcio totale trova molti imitatori anche in Italia. A cominciare dal Torino di Radice, che vince lo scudetto nel 1976. Anche in questo caso, però, al netto dell'efficacia del pressing a tutto campo, dell'aggressività e tutto il resto del credo laico olandese, ci sono grandi giocatori a fare la differenza, dal portiere Castellini, ai gemelli del gol Pulici (3 titoli di capocannoniere) e Graziani, da Zaccarelli e Pecci a centrocampo all'estrosa ala Claudio Sala

  • Nelle coppe europee, si registra il passo indietro dell'Italia, che perde due volte contro l'Ajax di Cruijff la finale di Coppa dei Campioni, nel 1972, con l'Inter, nel 1973, con la Juve. Ajax, dal 1971 al 1973, e Bayern Monaco, dal 1974 al 1976, mettono a segno tris storici.

  • Poi, comincia il lungo dominio inglese, che si estenderà ai primi anni '80. Apristrada il Liverpool di Bob Paisley (subentrato ad un altro tecnico di caratura straordinaria come Bill Shankly) e prosegue il Nottingham Forrest di Brian Clough. Il calcio inglese cambia pelle, mantiene forza, corsa e atletismo, oltre a stadi carichi di passione che mettono in soggezione chiunque oltrepassi le bianche scogliere di Dover, ma inizia a farsi strada anche un gioco meno scontato, da palla lunga e pedalare, dai cross a ripetizione, si vira verso il pass and move. Kevin Keegan, ala destra dal gol facilissimo, sarà due volte pallone d'oro, nel 1978 e nel 1979, ma mancherà la qualificazione ad Argentina '78, venendo l'Inghilterra eliminata proprio dall'Italia.

  • Ai mondiali del 1974, si fa notare la Polonia, terza, del capocannoniere Lato e del centrocampista Deyna. L'Italia, data favorita, va fuori al primo turno. Arriva il congedo di tre giganti del calcio italiano, tutti intorno ai 30 anni: Sandro Mazzola, Gianni Rivera e Gigi Riva. Chinaglia, che aveva appena trascinato la Lazio di Maestrelli ad uno storico scudetto, litiga con Valcareggi e quella resterà l'immagine di una spedizione fallimentare. Resta uno dei centravanti migliori di tutta la sua generazione. Quando parte in progressione e s'ingobbisce ricorda Nordahl. Non è marcabile. Lo ricorderanno, ciascuno a suo modo, prima Elkjaer poi Vieri.

  • I mondiali del 1978, nell'Argentina dei colonnelli, registra il canto del cigno dell'Olanda, battuta in finale, tra le polemiche, dai padroni di casa, capitanati da un libero leggendario, Daniel Passarella, ruvidissimo in marcatura, ma con un mancino raffinato. È la stella della squadra, con l'atipico attaccante Kempes, capocannoniere del torneo, il virtuoso centrocampista Ardiles, dalla tecnica funambolica, la potente ala destra Daniel Bertoni, che negli anni '80 sarebbe sbarcato in Italia, brillando tra Firenze e Napoli. Menotti, tecnico dell'Albiceleste, si concede il lusso di non convocare il giovane Maradona. Che diventerà il più grande di tutti. Ai mondiali argentini, davanti all'Italia quarta, giunge terzo il Brasile, dilaniato dalla rivalità tra Zico, 10 dal dribbling secco, e il mancino al fulmicotone di Dirceu. Entrambi, nei luccicanti anni '80, verranno a giocare in Italia: Zico all'Udinese, Dirceu al Verona, al Napoli, all'Ascoli, al Como e all'Avellino. In quel Brasile, più forte di quanto si sia poi raccontato, giocano anche un goleador implacabile come il centravanti Roberto Dinamite e il fantasista offensivo Reinaldo, più l'elegantissimo Mendonca e il sommo Rivelino, unico reduce del successo iconico ai mondiali messicani del 1970.

  • Due giocatori sudamericani, che non provengono dalle potenze tradizionali di Brasile e Argentina ed Uruguay, caratterizzano il decennio. Il 10 peruviano Cubillas, dal tiro poderoso e dalla progressione implacabile: 5 gol a Messico '70, 5 gol ad Argentina '78; il libero cileno Figueroa, uno dei massimi difensori della storia del calcio.

  • Dopo anni di anonimato, riprende vigore anche il calcio dell'est. Della Polonia s'è detto. Nel 1976, a sorpresa, è la Cecoslovacchia a vincere i campionati europei. Panenka segna, con il primo cucchiaio che si ricordi, il rigore decisivo nella finale contro la Germania Ovest di Beckenbauer e di Gerd Muller. Brilla anche la Jugoslavia di Dzajic, già capocannoniere degli Europei vinti dall'Italia nel 1968. Un anno prima della rassegna continentale, c'era stata la vittoria della Coppa delle Coppe da parte della Dinamo Kiev dal calcio super organizzato di Lobanovskij: la stella è Oleg Blochin, velocissimo attaccante che viene premiato con il pallone d'oro.

  • La nazionale olandese è la squadra del decennio, eppure perde le due finali che gioca: quella del 1974, battuta dalla formidabile Germania Ovest di Franz Beckenbauer, libero e condottiero, del dominatore dell'area di rigore, Gerd Muller, del portierone Sepp Maier e del ruvido marcatore Berti Vogts; quella del 1978, come detto, contro l'Argentina. La sua importanza, considerate anche le straordinarie analogie fra le due compagini, è pari a quella dell'Ungheria favolosa degli anni '50. Essa pure sconfitta ai mondiali svizzeri del 1954 dalla Germania Ovest. Il capitano dei tedeschi è il citato Franz Beckenbauer, due volte pallone d'oro, già centrocampista formidabile a inizio carriera, è diventato un libero favoloso, che contrasta, riparte, ispira e conclude. Contende a Cruijff il titolo di asso del decennio.

  • In Italia, prevale la Juve, che si aggiudica cinque campionati su dieci. Gli altri vanno a Cagliari (1970), Inter (1971), Lazio (1974), Torino (1976) e Milan (1979). Segno che la serie A, peraltro priva di calciatori stranieri, è competitiva ed aperta a molti esiti diversi. Non ho memoria di un altro decennio con sei squadre diverse capaci di raggiungere il titolo nel nostro campionato, a parte il decennio immediatamente successivo.

  • La nazionale italiana è seconda ai mondiali del 1970, guidata da Ferruccio Valcareggi, e quarta a quelli del 1978, guidata da Enzo Bearzot, giocando un calcio bello ed efficace, grazie anche alla freschezza di due esordienti come Cabrini e il rapidissimo centravanti Paolo Rossi, che sarà poi l'eroe del terzo mondiale vinto dall'Italia, quattro anni dopo: nel mezzo la ricordata delusione del 1974.

  • Il Pallone d'Oro premia, come ricordato, tre volte l'olandese Cruijff. Due volte è assegnato al tedesco Beckenbauer (1972, 1976). Nel 1970 aveva vinto un altro tedesco, dell'Ovest, perché allora c'erano due Germanie, Gerd Muller, capocannoniere del mondiale messicano con 10 gol. Nel 1974 vince il sovietico, ucraino, Oleg Blochin, velocissimo attaccante della Dynamo Kiev dal calcio super organizzato di Lobanovskyi. Nel 1977, la minuta ala destra danese Simonssen. Nel 1978 e nel 1979, il ricordato inglese Keegan.

  • Dino Zoff è il miglior portiere del decennio. Altri grandi numeri uno sono il tedesco Maier, l'inglese Banks e l'altro inglese Clemence. Tra gli attaccanti, oltre a Gerd Muller, meritano una citazione Gigi Riva, fuoriclasse di caratura mondiale dal sinistro irresistibile che regala uno storico scudetto al Cagliari proprio all'alba del decennio, Roberto Bettega, tra i migliori colpitori di testa della storia, e l'austriaco Krankl.

  • Nella seconda metà del decennio, si affacciano alla ribalta due fuoriclasse che brilleranno nel firmamento del calcio mondiale anche nei primi anni '80. Michel Platini, regista francese dal tocco felpato e dalla lucidissima visione di gioco, elegante e tremendamente efficace sia nell'assist che al tiro. Non affronta contrasti, perché si libera del pallone sempre un attimo prima che il difensore possa intervenire. Farà più avanti la fortuna della Juve. Karl Heinze Rummenigge, attaccante tedesco dalle cosce ipertrofiche e dalla progressione irresistibile, che ha tecnica da fantasista e doti acrobatiche uniche. Comincia ala destra nel Bayern di Beckenbauer, fa la mezzala, l'ala sinistra e il centravanti. Arriverà all'Inter nel 1984, con il meglio della carriera alle spalle e una struttura muscolare tanto poderosa quanto fragile, che gli costerà molti infortuni.

martedì 14 gennaio 2020

Eriksen all'Inter? Ritratto del talento danese ispirato da Michael Laudrup e consacrato da De Boer

Si avvicina, stando a molte fonti, il passaggio di Eriksen all'Inter. Da giovane e predestinato, molti credettero di ravvisare in lui la versione moderna di Michael Laudrup, uno che in Italia, paese provinciale quanto alla critica sportiva, si ricorda come un talento incostante e, per contro, in Spagna, considerano il miglior giocatore della Liga negli anni '90. Ora, del maggiore dei Laudrup Eriksen ha i piedi, ma non il dribbling stretto e la progressione. Ha però un'incidenza paragonabile nel gioco e mi riferisco sempre al Laudrup di Spagna, che, smessi i panni della seconda punta, divenne formidabile mezzala di regia sotto la guida sapiente di Cruijff. Rispetto a Laudrup, Eriksen calcia meglio le punizioni. Per gli assist, il confronto è quasi speculare. Grande calciatore Eriksen, non abbastanza considerato per aver giocato in una Danimarca poco competitiva e in un Tottenham, che ha sempre sfiorato le vittorie più importanti. L'Inter, con lui, farebbe un grande salto di qualità. C'è un fatto, che molti dimenticano. Eriksen è diventato un grande giocatore nell'Ajax allenato da Frank De Boer. Il più sottovalutato allenatore dell'Inter degli ultimi dieci anni. Tanto per ricordare la mediocrità, nutrita di pregiudizi, della critica sportiva italiana.

mercoledì 30 ottobre 2019

I 59 anni di Diego Armando Maradona: il re del calcio

Gianni Brera, che aveva una predilezione per i grandi atleti prestati al calcio, rimase talmente ammirato da Diego Armando Maradona, che pure era basso, tarchiato e tracagnotto e perciò lontanissimo dal suo modello di calciatore, da inventare, per lui, l'ossimorico appellativo di divino scorfano. Sì, perché il calcio giocato, anzi dipinto da Maradona, era sul serio metafisico. Altri grandi, alcuni grandissimi, calciatori vi erano stati prima di lui e sarebbero venuti dopo, ma nessuno ha saputo elevare il calcio ai livelli attinti da Maradona. Mai visto un pallone così obbediente come quello calciato da Maradona. La punizione a due in aera contro la Juve di Tacconi è, forse, il manifesto più rappresentativo del sovrano artista argentino: la barriera a due passi, nessuna rincorsa, una carezza al pallone, che si solleva oltre gli avversari, sebbene non ci sia lo spazio. Una traiettoria inspiegabile, che va oltre Newton e le sue leggi. Sembra il paradosso del calabrone, che per la sua morfologia non potrebbe volare, ma non lo sa e allora vola lo stesso. Così quel pallone che Maradona, solo lui avrebbe potuto, spedisce nel set. Meazza era stato formidabile, le grand peintre du football, lo ribattezzarono i francesi, Di Stefano il primo calciatore totale, anzi il secondo, dopo Valentino Mazzola, Pelé un elegantissimo fuoriclasse dal repertorio completo, Cruijff un prodigio di velocità applicata alla tecnica. Ronaldo da Lima era andato oltre Cruijff e le gesta di Cristiano Ronaldo e Messi sono ancora sotto gli occhi di tutti. Eppure Maradona è stato di più. Nessuno, infatti, come lui ha saputo trasformare squadre tutto sommato modeste in compagini capaci di vittorie epocali. L'Argentina campione del mondo del 1986, il Napoli del primo storico scudetto. Il genio calcistico maradoniano moltiplicava, metafisicamente, le energie e le capacità dei compagni di squadra. E rendeva possibile l'impossibile. Per questa ragione è stato il più forte di tutti.

giovedì 20 giugno 2019

Il calcio totale e il catenaccio

Del catenaccio abbiamo già scritto, che nacque in Svizzera, ma si perfezionò in Italia, raggiungendo vertici di eccellenza durante gli anni '60 del secolo scorso. Diciamo qualcosa anche sul calcio totale, che invece si affermò in Olanda, dove il totaalvoetbol divenne manifesto culturale anzi controculturale sul finire dei medesimi anni '60, imponendosi nella prima metà del decennio successivo e lasciando una pletora di rimpianti, emuli ed imitatori, vieppiù, di nostalgici. La vulgata pretende di fissare la nascita del calcio totale negli anni '30 all'Ajax, con l'inglese Jack Raynolds allenatore. Può essere. Di certo sappiamo soltanto che i suoi giocatori mutavano di posizione. Da una partita all'altra. Ma, ché poi è questa la vera essenza del calcio totale, non sappiamo se lo facessero, e fino a che punto, anche nella stessa partita. Perché il segreto del totaalvoetbol stava e resta in questo: giocatori sì eclettici e polivalenti, ma anche grandi atleti, capaci di colmare i vuoti lasciati dai compagni in movimento o rotazione. E per farlo, ci vogliono gambe e polmoni, visione del gioco, nel senso di dominio visivo degli spazi. E tecnica diffusa. Difficile, difficilissimo. Giocatori totali ce n'erano sempre stati. Pochi, a dire il vero. Alcuni grandissimi, come Valentino Mazzola e Alfredo Di Stefano. Cruijff sarebbe stato il continuatore di quella grandezza e di quell'unicità. L'Ajax di Michels e Kovacs e l'Olanda del 1974 andarono oltre perché erano squadre totali, formate da giocatori totali. E Cruijff era il più talentuoso e il più universale di quei gruppi. L'effetto fu talmente dirompente da scatenare nell'ordine:
1. lo stupore dei complessati di ogni dove, convinti che la scoperta olandese avrebbe cambiato il calcio;
2. il desiderio di replicare un modello, d'evidenza, non replicabile;
3. la confusione nei giudizi, che è la cifra della modernità, con la conseguenza che molti generici vennero scambiati per eclettici. Va da sé con risultati assai diversi da quelli sperati e immaginati.

La verità è che non c'è un modo di sicuro di arrivare al risultato. In uno sport di gruppo, a 11 peraltro, le variabili aumentano e si collocano al di là di qualsivoglia capacità di stima. Osservate il rendimento della nazionale olandese. Dopo il 1978, sconfitta in finale dall'Argentina di Passarella ai mondiali, dieci anni di buio fino agli Europei del 1988. Perché senza grandi campioni non esiste sistema di gioco efficace al punto di garantire la vittoria o anche la sola competitività.

giovedì 18 aprile 2019

La lezione dell'Ajax

Mai avuti i soldi delle squadre spagnole, delle squadre italiane o di quelle inglesi. Epperò l'Ajax, da 50 anni, come un fiume carsico, scava periodici solchi vittoriosi nel calcio europeo. Con delle pause inevitabili, perché i campioni li cresce in casa, oppure li va a cercare in campionati minori, quello danese su tutti. Compatibilmente con un portafoglio mai traboccante. Dopo la generazione d'oro di Cruijff e Neeskens, i lancieri di Amsterdam tornarono a vincere in Europa dopo un paio di lustri, nel 1987 in Coppa delle Coppe, quando tornarono ad avere fuoriclasse: Van Basten e Rijkaard e giocatori di valore come Winter, Wouters, oltre al giovane Bergkamp, con il quale avrebbero conquistato anche la Coppa Uefa del 1992. Poi, a metà degli anni '90, hanno ritrovato la forza di issarsi sul tetto d'Europa, ancora con giovani del vivaio, dai gemelli De Boer a Kluivert, da Seedorf a Davids fino al finlandese Litmanen: provate voi a scovare un campione in Finlandia! L'Ajax che ha eliminato la Juve è della medesima pasta. Campioni fatti in casa come De Ligt, De Jong, Van de Beek, ma anche il danese Schone. Giovani forti e motivati, legati alla maglia, talenti pescati dove altri neppure getterebbero l'amo e, poi, il gioco. Perché non è detto che si debba spendere molto più degli altri, per vincere. Il Psg, in Europa, non vince, sebbene spenda senza limiti. L'Ajax accetta il ridimensionamento legato ai cicli generazionali, sapendo che, poi, tornerà a vincere o a lottare per vincere. Un grande esempio. La lezione dell'Ajax!

giovedì 24 marzo 2016

E' scomparso Johan Cruijff (#Cruijff): il fuoriclasse olandese è stato tra i più grandi calciatori di sempre. Giocatore totale come Valentino Mazzola e Di Stefano

E' scomparso, a 68 anni, Johan Cruijff, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio. Straordinario anche per il suo valore allotrio, secondo il neologismo coniato da Benedetto Croce, per spiegare le ragioni extra artistiche del successo della Gioconda di Leonardo. Sì, perché la grandezza di Cruijff, mutatis mutandis, ha varcato i confini del rettangolo di gioco, per diventare fatto culturale o, per lo meno, fenomeno di costume. Cruijff, stella dell'Ajax di Amsterdam, diventa noto alla fine degli anni '60, ma è nei primi anni '70, che il gioco suo e dei suoi compagni, un gioco nuovo e straordinario, dove tutti attaccano e difendono e partecipano alla manovra, scambiandosi ruoli e posizioni, diventa l'emblema del mondo che cambia, delle regole che saltano, degli equilibri che cedono per spostarsi più avanti. E' il calcio totale, la bandiera dell'eclettismo. E Cruijff è per davvero attaccante e difensore, veloce e potente, tecnico e virtuoso del dribbling, alcune figure di superamento dell'avversario sono di sua concezione, come il turn Cruijff manco a dirlo. Poteva scattare trenta volte in una partita eppure giocava con semplicità, mai un tocco di troppo, a parte quel famoso rigore a due. E poi acrobatico e resistente, efficace ed incantatore, comandante in capo sebbene capace di nobile gregariato. Il Pelè bianco si dirà di lui. Tre Coppe dei Campioni consecutive con l'Ajax, tra il 1971 ed il 1973, battendo in finale anche Inter e Juve, con l'Olanda il secondo posto che sa di beffa dietro la Germania Ovest nel 1974, quando già era emigrato a Barcellona, diventando simbolo della Catalogna, per finirci anche da allenatore santone tra la fine degli anni '80 ed i primi anni '90. Tre volte pallone d'oro, un numero sconfinato di ammiratori di diverse generazioni e la convinzione diffusa, per molti di questi, come Sandro Ciotti, che Cruijff fosse il migliore di tutti, perché quelle meraviglie palla al piede le eseguiva a velocità impensate. Fu un innovatore, senza dubbio, anche per una facilità di parola generalmente sconosciuta ai calciatori: ha lasciato un mucchio di aforismi che in queste ore stanno facendo il giro della rete. Prima di lui, soltanto Valentino Mazzola, più potente, ed Alfredo Di Stefano, più goleador, avevano parimenti incarnato il mito dell'uomo squadra, dominante in ogni zona del campo. Dopo Cruijff, che in compenso era più veloce dei due, nessun altro.

giovedì 19 marzo 2015

Sacchi sbaglia: Tevez è fortissimo, ma Roberto Baggio era di un'altra categoria

Sacchi, ieri sera, ha esaltato, giustamente, Tevez, che deciso la sfida di Champions League contro il Borussia Dortmund, arrivando però ad indicarlo siccome un fuoriclasse "senza controindicazioni", addirittura, secondo lui, più forte di Roberto Baggio. Eresia calcistica. Che Tevez sia un grande giocatore è fuor di dubbio, dacché unisce ad una tecnica ragguardevole una grande tenuta nei contrasti, la corsa di un centrocampista e quella garra tanto cara agli argentini. Epperò Roberto Baggio era di un'altra categoria. Nel tocco, nel dribbling, di cui fu un virtuoso tra i massimi nella storia del calcio, nella visione del gioco, nell'assist con il difensore davanti, quello che ti fa subito riconoscere il fuoriclasse dal buon giocatore. Certe traiettorie, Meazza fu tra i primi ad immaginarle, Roberto Baggio le credeva possibili e le realizzava con disarmante regolarità. Roberto Baggio era anche più goleador di Tevez e fece quel che fece a dispetto di infortuni tremendi, che avrebbero interrotto la carriera di molti giocatori. Esclusi, in ordine di grandezza, Maradona, Pelé e Di Stefano, Roberto Baggio regge il confronto con tutti i grandissimi, da Meazza, a Cruijff, a Zico, a Ronaldo. Che si possono anche ritenere più forti di lui, ma, insomma l'accostamento è possibile per Baggio. Non per Tevez. Al primo Sacchi deve la finale raggiunta dalla sua nazionale dal gioco racchio nel 1994. Altro che! 

lunedì 12 gennaio 2015

Cristiano Ronaldo III: vince il pallone d'oro 2014. Messi secondo, Neuer terzo

Ha vinto il terzo pallone d'oro Cristiano Ronaldo, eguagliando i successi di Cruijff, Platini e Van Basten. Messi, che ne ha vinti quattro, è giunto secondo, Neuer terzo. Non è un premio per portieri, quando si escluda il grande Jashin. Zoff e Buffon si fermarono al secondo posto. Cristiano Ronaldo, implacabile macchina da gol ed eroe della decima, ha vinto con merito, nonostante il mondiale in penombra.

lunedì 7 luglio 2014

In morte di Alfredo Di Stefano. La leggenda della "saeta rubia"

La leggenda della "saeta rubia", al secolo Alfredo Di Stefano, argentino naturalizzato spagnolo, ma di schiette origini italiane, non è finita. Con la scomparsa di uno dei maggiori campioni della storia del calcio, si presenta semmai l'occasione di ricordarne la straordinaria carriera. Dei successi, innumerevoli, tanti hanno già scritto e soprassiedo, troppo essendo noti. Quel che mi preme ricordare è che Di Stefano è stato il prototipo del calciatore universale, che sposava alla tecnica sopraffina, tuttavia lontana da guizzi e ghirigori, una complessione da quattrocentista, un fisico statuario, specialmente ai tempi suoi, che gli valse il soprannome di "saeta rubia", freccia bionda, ma anche di "el aleman", il tedesco, perché biondo, poi i capelli si diradarono, e forte come un germanico. E poi era resistente, tatticamente acutissimo, formidabile al momento di battere a rete. E vinceva i contrasti e serviva i compagni. Un centravanti a tutto campo. Un comandante in campo, cui tutti dovevano obbedienza calcistica. E chi, come Didì al Real Madrid, non si piegava, doveva cambiare aria. Prima di lui, per la verità, a livelli non meno eccelsi, si era espresso Valentino Mazzola, strapotente mezzala sinistra del Grande Torino, strappato alla vita anzitempo a Superga. Poi, con minor intensità, Bobby Charlton. Infine, Cruijff, meno possente di Di Stefano, ma tanto più veloce. Un solo neo nella carriera di Di Stefano, nessuna partecipazione ai mondiali. Né con la maglia dell'Argentina né con quella della Spagna. Sicché il suo nome resta indissolubilmente legato a quello del Real Madrid delle prime cinque consecutive Coppe dei Campioni. La leggenda della "saeta rubia" continua.

lunedì 19 maggio 2014

Storia dei mondiali di calcio: 11^ puntata (1974, la Germania Ovest trionfa in casa, fuori l'Italia al primo turno)

Una lunga imbattibilità di Zoff, vittorie in serie contro grandi avversarie, l'Italia si avvia ai mondiali del 1974, ospitati dalla Germania Ovest, con i gradi di favorita. Sarà una disfatta, figlia di divisioni interne, le solite tra Rivera e Mazzola, ma anche figlia del tramonto di una generazione. Riva, dopo tanti infortuni, ha perso scatto e potenza. Il centravanti della Lazio campione d'Italia, invece, il possente Chinaglia perde le staffe e litiga con Valcareggi davanti alle televisioni di tutto il mondo. Clima teso, la Polonia sorpresa di quell'edizione dei mondiali, ci elimina al primo turno. Tutti pronosticano una vittoria dell'Olanda delle meraviglie, la cosiddetta "arancia meccanica" dal titolo dello sconvolgente film di Kubrick del 1971, calcio totale, tanti eclettici che si scambiano ruoli e posizioni, corsa, tecnica raffinata, ma anche forza ed acume tattico, Cruijff, Neeskens, Krol. Quell'Olanda è talmente forte che costringe i brasiliani campioni uscenti a picchiare per tutta la partita, difficile da credersi ma accadde proprio questo. In finale, l'Olanda sfida i padroni di casa. Una fittissima rete di passaggi dopo il fischio d'inizio, poi, palla a Cruijff, che dribbla in accelerazione uno, due, tre tedeschi e viene atterrato in area. Rigore, fucilata di Neeskens e Sepp Maier è battuto. I tedeschi accusano il colpo ma sono sempre quelli descritti da Tacito: fingono e credono. Fingono di essere più forti degli olandesi e ci credono fino a ribaltare il risultato. Pareggio su rigore di Breitner, terzino sinistro dal tiro violento, che poi passerà a centrocampo il resto della carriera, ed il solito gol del solito Gerd Muller. Franz Beckenbauer può alzare la coppa. Germania Ovest per la seconda volta campione del mondo. Lato, ala della Polona che giunge a sorpresa terza, è capocannoniere con sette reti: uno dei giocatori rivelazione della manifestazione, assieme ai connazionali Deyna e Szarmach, autori di 3 e 5 gol. Si distingue anche il longilineo centravanti svedese Edstrom, che segna 4 reti.  (1^ puntata2^ puntata3^ puntata4^ puntata5^ puntata, 6^ puntata7^ puntata8^ puntata9^ puntata, 10^ puntata, 11^ puntata, 12^ puntata)

lunedì 7 gennaio 2013

Messi quarto pallone d'oro consecutivo: supera Cruijff, Platini e Van Basten

Tutto secondo pronostico, il pallone d'oro 2012 va a Lionello Messi, che precede Iniesta, cui non basta l'ennesimo successo con la Spagna, e Cristiano Ronaldo, trionfatore nella Liga con il Real Madrid. Nelle retine dei giurati sono rimaste le impressioni fortissime dei 91 gol stagionali di Messi, una cifra iperbolica cui pure molto ha contribuito la pochezza delle difese spagnole. Alla fine, è record per Messi: quattro palloni d'oro quattro, più dei tre di Cruijff, Platini e Van Basten.

mercoledì 24 ottobre 2012

I dieci numeri 10 più forti della storia

Veniamo ai migliori numeri dieci della storia del calcio. Il numero dieci, da sempre, simboleggia il talento più puro, meno ordinario, quello capace di accendere la fantasia dei tifosi, di escogitare la giocata vincente, di decidere, magari con un colpo, una partita. Poi, è noto, negli anni '30 e '40 il 10 era sulla maglia della mezzala sinistra, in Italia Giovanni Ferrari o Valentino Mazzola, poi spesso identificò il regista, si pensi a Suarez, che però ho collocato in altra classifica. Pelé era un attaccante, che agiva dietro la prima punta. Cruijff, che accidentalmente indossava il numero 14, un uomo ovunque, Maradona semplicemente il calcio e via dicendo. Come per i centravanti, ai primi dieci aggiungo anche i secondi. Questa la classifica che propongo. Cosa ne pensate?
*Aggiornamento del 13 aprile 2022: estendo la classifica ai primi trenta numeri 10 più forti della storia.
1. Maradona
2. Pelé
3. Cruijff
4. Messi
5. Zico
6. Schiaffino
7. Roberto Baggio
8. Platini
9. Zidane
10. Valentino Mazzola
11. Labruna 
12. Rivera
13. Ronaldinho
14. Totti
15. Cubillas
16. Zizinho
17. Modric
18. Michael Laudrup
19. Van Himst
20. Skoglund
21. Ricardo Bochini
22. Riquelme
23. Schuster
24. Gascoigne
25. Bergkamp
26. Gullit
27. Francescoli
28. Hagi
29. Ballack
30. Mancini
31. Overath
32. Del Piero
33. Rui Costa

venerdì 16 marzo 2012

I dieci calciatori più forti di sempre: Maradona, Pelé, Cruijff, Meazza, Di Stefano, Puskas, Ronaldo, Messi, Rummenigge, Eusebio

E' una delle passioni degli amanti del calcio, formare graduatorie dei migliori giocatori della storia del calcio. Così, improvviso una mia classifica, che tiene conto del talento individuale, dei successi personali e di squadra, della capacità di incidere in un'epoca e di lasciare un'impronta del proprio passaggio sui campi di calcio. Molti non saranno d'accordo, ed è inevitabile. Valga la classifica che segue come provocazione.
1. Maradona              6. Puskas
2. Pelé                        7. Ronaldo
3. Cruijff                   8. Messi
4. Meazza                  9. Rummenigge
5. Di Stefano           10. Eusebio
Cosa ne pensate? Avete graduatorie alternative da proporre?