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lunedì 22 giugno 2020

Classifica Serie A dopo 26^ giornata

Classifica della Serie A dopo la 26^ giornata. Con i recuperi di ieri sera, vinti da Atalanta e Inter, si riparte oggi per le ultime dodici giornate. Da qui.

 Juve 63 Cagliari 32
 Lazio  62 Sassuolo 32 
 Inter  57 Fiorentina 30
 Atalanta 51  Udinese  28
 Roma 45 Torino 28
 Napoli  39 Sampdoria 26
 Verona 38 Genoa 25
 Parma  36 Lecce 25
 Milan 36 Spal 18
 Bologna  34  Brescia 16

domenica 21 giugno 2020

Inter-Samp: 2-1. Lukaku, Lautaro, Thorsby

Inter senza Brozovic e Sensi. Gioca Gagliardini al fianco di Barella. Primo tempo di franca marca nerazzurra, con Eriksen ad ispirare la manovra. Il danese manda in gol Lukaku con pregevole tocco di sinistro in area. La Samp non  c'è. L'Inter raddoppia con Lautaro servito da Candreva. Nella ripresa cala il ritmo dell'Inter e sale la Sampdoria che accorcia le distanze con Thorsby. L'Inter soffre e vince con parecchio affanno. Ma, vince. Oggi, Lautaro ha giocato. Con voglia e qualità. Troppo impreciso Lukaku, che ha fallito due gol facilissimi dopo grandi assist di Eriksen. De Vrij ha sbagliato in occasione del gol blucerchiato. Bravo Bonazzoli, subentrato, tra gli ospiti.

sabato 20 giugno 2020

Tributo a Mario Corso, "il piede sinistro di Dio"

È uscito dal campo anche Mariolino Corso, l'11 della Grande Inter. Il più svogliato, talentuoso, imprevedibile giocatore di quella squadra irripetibile, che segnò un 'epoca.

Corso era approdato all'Inter a soli 17 anni,  nel 1958, quando Angelo Moratti, da tre anni subentrato a Masseroni alla presidenza, cercava con ostinazione la vittoria. Dal 1959, cominciò a trovare posto tra i titolari. E subito gli esperti iniziarono a domandarsi quale fosse il suo ruolo. Sì perché Corso, participio passato del verbo correre, la palla la voleva tra i piedi. Poi, inventava. Chiedeva un triangolo, cambiava gioco, lanciava di prima, batteva a rete o avanzava in dribbling. E, una volta iniziata la progressione, non c'era più modo di fermarlo. Perché la sua falcata era ampia, il controllo del pallone assoluto, cioè sciolto da ogni esterna interferenza. E un difensore che avesse arrischiato un anticipo, avrebbe subíto l'onta del tunnel. Come usava Sivori, che Corso ammirava e che gratificò di due tunnel appena si affrontarono.

Il segreto di Corso stava nella caviglia? Anche, certo. Come quello di McEnroe sarebbe stato nel polso. Strabiliò con le sue punizioni a "foglia morta", che sembravano quelle a "folha seca" di Didì. Con la palla che sormontava la barriera e poi scendeva, anzi s'inabissava nella rete con il portiere immobile. Un prodigio tecnico, che le cronache degli anni '30 riconobbero anche al sommo Meazza. Chi volesse davvero farsi un'idea dell'estro impareggiabile di Mariolino Corso dovrebbe leggere "Il più mancino dei tiri" di Edmondo Berselli, anno 1995. Lì c'è tutto.

Nel 1960, arriva Herrera sulla panchina dell'Inter. E comincia subito con Corso una lunga, ma fertile antipatia. Herrera è un visionario. Opera una rivoluzione: preparazione atletica intensa, esercizi tattici frequenti, rigore alimentare e ricerca dell'intensità. Corso scalpita. Detesta allenarsi e trova insopportabile l'enfasi retorica del Mago. Che parla troppo per i suoi gusti. Non è il solo a pensarla così. Brera lo battezza "Habla Habla". Corso, mentre sprona la squadra, mormora invece un più incisivo: "tasi mona".

Tutti i campionissimi dell'Inter pendono dalle labbra di Herrera. Da Mazzola a Facchetti a Suarez. Tranne due: il capitano Picchi, che in campo si permette di dare ordini diversi da quelli del Mago, e Mario Corso, che porta in campo il calcio della strada, quello istintivo e primordiale. Non corre e men che meno rincorre, gioca dove la tribuna ombreggia il prato e si concede lunghe pause di contemplazione. È un'insubordinazione che Herrera non gli perdona: ogni anno il suo nome è il primo nella lista dei cedibili consegnata ad Angelo Moratti. Ma, Moratti, che aveva accontentato Herrera, mandando via Angelillo, Corso, lo difende. È il suo pupillo. Non solo non va via ma deve giocare titolare. Herrera si adegua. Seguiranno tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Molti i gol decisivi del suo mancino, di più gli assist. Nelle difficoltà, palla a Suarez o palla a Corso. È l'arma tattica più micidiale di quella squadra leggendaria. 

Herrera va via nel 1968. Corso resta. E guida l'Inter, con Mazzola e Facchetti e Burgnich e Jair, ad un altro storico scudetto nel 1971 e alla finale di Coppa dei Campioni del 1972, persa contro l'Ajax di Crujff.

In nazionale, Corso gioca. Ma non quanto meriterebbe. Gli si rimprovera l'anarchia tattica. Come al solito. Ha più problemi di Rivera. Nell'ottobre del 1961, la nazionale italiana va in trasferta a Tel Aviv: doppietta di Corso nel 4-2 contro Israele. Il tecnico israeliano, stupito dalle magie di Corso, lo definisce il "piede sinistro di Dio".

Amatissimo dai tifosi, amatissimo dai presidenti, anche Massimo Moratti, condividerà la predilezione del padre, Corso è un simbolo intramontabile dell'Inter e dell'idea dell'Inter. Successore di Skoglund e predecessore di Beccalossi e di Recoba. Gli altri mancini che hanno reso romantica la storia della squadra più romantica. 

Giocava con i calzettoni abbassati, Mariolino Corso. Tanto sapeva che i difensori avversari non l'avrebbero preso. Caracollava invece di correre. Poetava, prima che il calcio diventasse prosa. La terra gli sia lieve.


venerdì 19 giugno 2020

Il salto in lungo alle Olimpiadi

Disciplina tradizionale dei salti, il salto in lungo era presente già alle prime Olimpiadi della storia moderna, quelle di Atene del 1896. Il primo vincitore fu Ellery Clark, un polivalente, che vinse anche l'oro nel salto in alto. Accoppiamento insolito, che oggi desterebbe sensazione. Spesso i lunghisti sono stati anche triplisti o velocisti, sui 100 o 200 m. Le prestazioni crebbero sempre dal 1896, 6,35 m saltati da Clark, fino a Gutterson nel 1912 a Stoccolma: quattro ori USA nelle prime quattro Olimpiadi. Poi, dopo la pausa imposta dalla Grande Guerra, un successo svedese, di Petersson ad Anversa 1920, ed un arretramento nel risultato, come si nota dalla tabella sottostante. La barriera degli 8 metri fu infranta, per la prima volta, da Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936 (vinse altri 3 ori nei 100 m, nei 200 m e nella staffetta 4x100): 8,06 m e primato del mondo. Poi la Seconda Guerra. A Londra 1948, lo statunitense Steele si fermò a 7,82 m. Per tornare sopra gli otto metri, si dovette aspettare Roma 1960, quando Boston atterrò a 8,12 m. Nel 1968, a Città del Messico, ben sopra i 2.000 m di altitudine, il fantasmagorico salto di Bob Beamon a 8,90 m: record del mondo che avrebbe resistito fino al 1991! Da Los Angeles 1984 ad Atlanta 1996, ci furono quattro ori consecutivi del più grande lunghista di sempre: Carl Lewis. A Pechino 2008, il panamense Saladino vinse con 8,34 m, una misura inferiore a tutte le precedenti fino Monaco 1972. Greg Rutherford fece peggio a Londra 2012, con 8,31 m. Poco meglio Henderson a Rio de Janeiro 2016: 8,38 m. Ed è un caso più unico che raro nell'atletica leggera. Negli ultimi quindici anni, si salta, mediamente, meno lontano. Da segnalare che in 31 edizioni delle Olimpiadi moderne, ci sono state ben 26 vittorie di un atleta statunitense. Il primatista, s'è detto, è Carl Lewis con quattro ori consecutivi. Nessun altro lunghista ha vinto l'oro più di una volta. Segno della difficoltà della disciplina, nella quale la tecnica di rincorsa, salto e sospensione in volo è importante quanto le doti atletiche naturali. E la longevità agonistica ad alto livello è assai ardua.
File:Bob Beamon 1968.jpg - Wikimedia Commons
Bob Beamon, primatista olimpico
nel salto in lungo: 8,90 m

Salto in lungo Olimpiadi: vincitori
 Atene 1896  Ellery Clark  USA 6,35 m
 Parigi 1900 Elvin Kraenzelein  USA 7,18 m
 Saint Louis 1904 Myer Prinstein USA 7,34 m
 Londra 1908 Frank Irons USA 7,48 m
 Stoccolma 1912 Albert Gutterson USA 7,60 m
 Anversa 1920 William Petersson Svezia 7,15 m
 Parigi 1924 DeHart Hubbard USA  7,44 m
 Amsterdam 1928 Ed Hamm USA 7,73 m
 Los Angeles 1932 Ed Gordon  USA 7,64 m
 Berlino 1936 Jesse Owens USA 8,06 m 
 Londra 1948 Willie Steele USA 7,82 m
 Helsinki 1952 Jerome Biffle USA 7,53 m
 Melbourne 1956 Greg Bell USA 7,83 m
 Roma 1960 Ralph Boston USA 8,12 m
 Tokyo 1964 Lynn Davies Regno Unito  8,07 m
 Città del Messico 1968  Bob Beamon USA 8,90 m
 Monaco 1972 Randy Williams USA 8,24 m
 Montreal 1976 Arnie Robinson USA 8,35 m
 Mosca 1980 Lutz Drombowski Germania Est 8,53 m
 Los Angeles 1984 Carl Lewis USA 8,54 m
 Seoul 1988 Carl Lewis  USA 8,72 m
 Barcellona 1992 Carl Lewis  USA 8,67 m
 Atlanta 1996 Carl Lewis  USA 8,50 m
 Sidney 2000 Ivan Pedroso  USA 8,55 m
 Atene 2004 Dwight Phillips  USA 8,59 m
 Pechino 2008 Irving Saladino Panama 8,34 m
 Londra 2012 Greg Rutherford Regno Unito  8,31 m
 Rio de Janeiero 2016 Jeff Henderson USA 8,38 m

giovedì 18 giugno 2020

L'Inter può vincere lo scudetto? Dipende da Conte

La Juve vista contro il Milan e contro il Napoli è una squadra stanca e, forse, nemmeno troppo motivata. Ha il peggior centrocampo degli ultimi dieci anni, non ha un centravanti di ruolo, almeno fin quando Higuain starà in panchina, un allenatore che inclina allo scoramento alle prime difficoltà e un Cristiano Ronaldo, che ho sempre preferito a Messi, che, a più di 35 anni, comincia a tradire segni di stanchezza. Già al Real Madrid, negli ultimi anni, i suoi dribbling erano diventati un evento rarissimo, ma restava goleador tremendo, grazie ai tagli in area, al prodigioso stacco aereo, alla qualità delle conclusioni. Zidane lo faceva giocare meno e così facendo gli ha allungato la carriera ai massimi livelli. Sono passati due anni.

La Lazio, prima del Covid, correva e divertiva, ma ha una rosa corta. Può vincere, ma c'è bisogno che tutto le vada per il verso giusto. E non è detto.

Sicché, dovesse l'Inter vincere il recupero di domenica sera contro la Sampdoria, riportandosi a 6 punti dalla vetta, lo scudetto tornerebbe un obiettivo possibile. Difficile, ma possibile. Perché la rosa è forte, al netto di alcuni ruoli, e il calendario, sulla carta, agevole. Ed allora credo che molto dipenderà da Conte. Da quanto saprà derogare dall'ortodossia del 3-5-2, da quanto imparerà, è sempre stato il suo limite, a fare i giusti di cambi, di uomini e di posizioni, a gara in corso. Da quanto saprà valorizzare tutti i calciatori a sua disposizione. Resto critico nei suoi confronti, perché fino ad ora, ha fatto meno di quel che avrebbe potuto. E, più in generale, non l'avrei voluto sulla panchina dell'Inter. Eppure, lo scudetto resta possibile.

Bundesliga: 30 volte Bayern Monaco

Ha vinto anche l'edizione 2019/20 della Bundesliga, il Bayern Monaco. Ottavo titolo consecutivo, trentesimo assoluto. Un dominio nettissimo, laddove si consideri che, dietro la schiacciasassi bavarese c'è il Norimberga, con nove titoli, l'ultimo dei quali, però, risale al 1968! Per di più, attualmente, il Norimberga milita nella serie B tedesca.

La tirannia del Bayern Monaco sul calcio alemanno è tanto più significativa, se si pensi che, dopo il primo scudetto del 1932, dovette aspettare 37 anni per il secondo, nel 1969. Insomma, ancora fino a tutti gli anni '60, non solo il Norimberga, ma anche il Borussia Dortmund e l'Amburgo e il Colonia e lo Shalke 04 avevano fatto meglio.

Tutto cambiò quando un'irripetibile generazione di talenti, da Maier a Beckenbauer a Gerd Muller si ritrovò a vestire assieme la maglia del Bayern Monaco: tre titoli nazionali consecutivi dal 1972 al 1974 (ma anche tre Coppe dei Campioni consecutive dal 1974 al 1976). Ma, in rampa di lancio, per il ruolo di nuovo dominatore della Bundesliga, era anche il Borussia Monchengladbach di Berti Vogts, che aveva vinto nel 1970 e 1971 e avrebbe vinto anche nel 1975, 1976 e 1977. Prevalse il Bayern. Con la sua nuova stella, Karl Heinz Rummenigge, giunsero i titoli del 1980 e del 1981. Quindi una tripletta, con Lothar Matthaus e Brehme e Augenthaler tra il 1984 e il 1987, quando avvenne il sorpasso, con 10 titoli a nove, ai danni del Norimberga. Dopo di allora, altri 33 campionati di Bundesliga - nel frattempo alla Germania Ovest si sarebbe riunita la Germania Est - e 20 titoli, per giungere ai 30 di oggi!

Molte nobili del calcio tedesco di un tempo, soprattutto Amburgo e Colonia, sono decadute. Ha tenuto botta soltanto il Borussia Dortmund, che, negli ultimi 33 anni ha vinto cinque titoli. E poi il Werder Brema, che ne ha assommati tre. Per gli altri, soltanto le briciole. Poco, per ritenere davvero competitivo il campionato tedesco. Eppure la Germania, sempre considerando gli ultimi 33 anni, ha vinto: 2 Mondiali (1990 e 2014), 1 Europeo (1996) ed è stata ai mondiali anche una volta seconda (2002) e due volte terza (2006 e 2010), giocando altresì due finali europee (1992 e 2008).

mercoledì 17 giugno 2020

Finale Coppa Italia: Napoli-Juve 4-2

Roma, Stadio Olimpico, ore 21:00, finale di Coppa Italia, tra Napoli e Juve. Sarri sfida il suo passato. Il Napoli di Gattuso ha la grande occasione di tornare alzare un trofeo. Nell'immediata vigilia, la partita mi pare equilibrata. Ma, un pronostico lo faccio ugualmente: vincerà il Napoli.

La cronaca.
Partiamo dalla fine. Ha vinto il Napoli. E mi ero sentito di pronosticarlo perché la Juventus vista contro il Milan mi era parsa davvero malmessa. Il Napoli di Gattuso è invece ordinato, solido, compatto. E nella gara regolamentare ha fatto meglio, ha  colpito due pali, ha avuto più occasioni, sopratutto nel finale. Pareggio a reti inviolate, si va direttamente ai rigori. Dal dischetto, due errori bianconeri di Dybala e Danilo.

Emblematica la faccia di Cristiano Ronaldo, mai visto giocare così male, dopo la partita. Prima di arrivare alla Juve, le finali di solito le vinceva.

Ultima notazione. Sarri ha perso contro il suo passato. C'era stato un Napoli di Sarri. Che ancora si ricorda. Una Juve di Sarri, invece, non s'è mai vista. Gioco lento, ripetitivo, senza strappi. Demme,  da solo, ha messo nel sacco tutto il centrocampo bianconero. Soprattutto dopo l'ingresso del sopravvalutato Bernardeschi.

Messico e nuvole: Italia-Germania 4-3 50 anni dopo

"Messico e nuvole / La faccia triste dell'America / Il vento soffia la sua armonica / Che voglia di piangere ho" (Paolo Conte)

Sono passati 50 anni, tanti. Da quel 17 giugno 1970, quando l'Italia si fermò per assistere ad una partita, che sarebbe divenuta proverbiale. La semifinale dei campionati del mondo di Mexico '70, ancora nominati Coppa Rimet.

File:Commemorative plaque Aztec Stadium.jpg - Wikipedia
Targa celebrativa della partita del Secolo
Italia-Germani 4-3, Mexico '70

L'Italia, campione d'Europa in carica, era giunta in semifinale tra molti stenti, dipesi dall'altura, dalla rarefazione dell'aria sopra i 2.000 m - anzi i 2.500 m, considerato che le prime quattro partite furono giocate a Toluca, 2.660 metri sul livello del mare - dalla cosiddetta maledizione di Montezuma, che attentava alle viscere dei giocatori.

La staffetta Mazzola-Rivera.
La spedizione azzurra era partita tra mille polemiche. Centro delle quali era Gianni Rivera, capitano del Milan e pallone d'oro in carica, entrato in rotta di collisione con il capo delegazione Mandelli. La stampa si divideva tra lui e Mazzola. Mazzola Sandro, figlio dell'immenso Valentino, che era capitano dell'Inter. Mazzola, dopo avere terrorizzato per un quinquennio le difese di mezza Europa con la sua velocità, il suo dribbling stretto ed il tiro fulmineo, secco, anticipato, aveva deciso di arretrare a mezzala. Forse per avvicinarsi al mito paterno. Da lì erano nati, più nella testa degli addetti ai lavori che in campo, problemi di coesistenza con Rivera. Che pure era un sontuoso dieci, dal tocco elegante ed illuminato, ma, come sosteneva Brera, di poco nerbo atletico. A conti fatti, i due avrebbero potuto coesistere, avendo un gioco diverso e complementare. E giocarono assieme tanto in azzurro, prima e dopo Messico '70. Quando, a partire dai quarti di finale contro i padroni di casa, il tecnico Valcareggi optò per una staffetta tra i due. Il primo tempo a Mazzola, più dinamico e ficcante, il secondo a Rivera, per inventare in favore di Riva e Boninsegna, a ritmo calato e avversari più stanchi. A dirla tutta, Valcareggi, Rivera, non lo vedeva in campo dall'inizio a prescindere da Mazzola. Nella prima partita del girone eliminatorio, vinta 1-0 contro la Svezia, gol di Domenghini, Rivera non giocò affatto. Lo stesso accadde nella gara successiva contro l'Uruguay. Riverà entrò, proprio all'inizio del secondo tempo, contro Israele: altro pareggio a reti bianche. Ai quarti, contro il Messico, Rivera era entrato ad inizio secondo tempo al posto di Domenghini. Mazzola avrebbe poi raccontato di aver avuto problemi di stomaco, il solito Montezuma, alla vigilia della partita con il Messico, ai quarti. E fu allora  che Valcareggi programmò di fargli giocare il primo tempo, per far poi posto a Rivera. L'Italia vinse 4-1, con reti azzurre di Riva (2), Rivera, proprio lui, e un'autorete. In semifinale, forse per la scaramanzia tanto cara al mondo del calcio, si decise per la medesima mossa.

La partita.
Mazzola spese il suo gioco dalle parti di Beckenbauer, libero a modo suo, cioè vero regista arretrato e primaria fonte del gioco tedesco, annullandolo. L'Italia era attenta, ma non guardinga e trovò prestò il gol, 8' del primo tempo, con un diagonale mancino di Boninsegna. Uno che nemmeno ci sarebbe stato in quei mondiali, senza l'infortunio di Anastasi. E che, a Cagliari, aveva faticato a trovare l'intesa con Riva. Da lì in poi, azzurri in controllo. Dopo l'intervallo, fuori Mazzola, tra i migliori, dentro Rivera. Ma, i tedeschi sembravano non averne. E la partita si avviava al tramonto senza grandi colpi di scena. Fino al recupero, quando l'ala sinistra alemanna Grabowski crossò in area per Schnellinger, che pare lì si trovasse per prima raggiungere gli spogliatoi e sfogarvi la delusione dell'eliminazione. E il terzino milanista segnò in spaccata. Difesa azzurra assente, dal libero Cera a Facchetti, apparso sotto tono. Pareggio e supplementari.

I supplementari.
Fu ai supplementari che una partita tutto sommato noiosa prese una piega inaspettata ed epica. Cinque gol cinque. Prima il mortifero centravanti tedesco Gerd Muller, a rapinare un pallone vagante in area piccola - nuovo errore sesquipedale della retroguardia azzurra -, poi, Riva, con magico sinistro incrociato a pareggiare. Quindi Burgnich, roccioso terzino mai domo a riportare avanti gli azzurri. Poi, ancora Muller a sorprendere Albertosi e, proprio lui, Rivera, sulla linea di porta. Ma lo sceneggiatore più geniale della storia del calcio volle che, ripreso il gioco, da Facchetti palla a Boninsegna, corsa sulla sinistra, cross e Rivera, proprio lui, ad insaccare di piatto destro alla destra di Maier, che si tuffava dalla parte opposta. Italia-Germania, che era ancora Germani Ovest per la verità, 4-3 e la fama di partita del secolo. 

Il mito.
Sarei nato cinque anni più tardi, ma di quella partita ho sentito parlare sin da piccolo e ricordo il film sulla Rai che nel 1990 - prima dei mondiali di casa nostra, che avremmo dovuto vincere e non vincemmo - ne rievocò il clima, i sentimenti e gli umori. Ne ho letto mille e mille volte. Resoconti ed interviste. Ho visto e rivisto quella partita. Che, a dirla tutta, non fu bella, anzi piena di errori, però, provate a trovarne un'altra, più simbolica, più iconica e, sì, più rappresentativa di quel mistero senza fine bello, parole di Brera, che è il calcio. Sono 50 anni oggi. Ma, è come fosse ieri.

Città del Messico, Stadio Azteca
Mercoledì 17 giugno 1970, ore 16:00
Italia-Germania Ovest 4-3 d.t.s.
9^ Coppa Rimet (Semifinali)

Italia: Albertosi (Cagliari), Burgnich (Inter), Facchetti (Inter) -cap.-, Bertini (Inter), Rosato (Milan), Cera (Cagliari), Domenghini (Cagliari), Mazzola (Inter), Boninsegna (Inter), De Sisti (Fiorentina), Riva (Cagliari) - Sostituzioni: Rivera per Mazzola 46', Poletti (Torino) per Rosato 91' - C.T.: Ferruccio Valcareggi.

Germania Ovest: Maier, Vogts, Patzke (65' Held), Beckenbauer, Schnellinger, Schulz, Gabrowski, Seeler - cap. -, Gerd Muller, Overath, Lohr - C.T.: H. Schon.

Arbitro: Yamasaki (Messico)

Reti: Boninsegna (I) 8', Schnellinger (G) 90', G. Muller (G) 94', Burgnhic (I) 98', Riva (I) 104', G. Muller (G) 110', Rivera (I) 111'.

Spettatori: 105.000 circa.

martedì 16 giugno 2020

Inter: Sebastiano Esposito merita più spazio

Lukaku, ferma la difficoltà a decidere le partite importanti, è alla ricerca della miglior condizione: la sua mole richiede tempo, dopo la pausa imposta dal Covid.


Lautaro s'immagina già al Barca. Ed il suo sostituto naturale, Sanchez, è un giocatore forte ma logoro, il cui rendimento nelle ultime stagioni è sempre stato in discesa: quindici anni di professionismo si sentono.


Ora, essendo questa la situazione dell'attacco nerazzurro, concederei più spazio a Sebastiano Esposito: giovane, determinato e talentuoso. Ricordo che, nel 1988, Trapattoni, con Serena spesso infortunato, diede spazio al giovane Massimo Ciocci, ricavandone gol e belle prestazioni. Poi Ciocci, tolto il grande anno di Cesena, stagione 1990/91, non mantenne le promesse iniziali. Anche perché incappò, la stagione successiva, tornato all'Inter, nella confusione generata dalla rivoluzione di Orrico. Ma, questa è un'altra storia.

Ciò che voglio dire è che puntare su un giovane talento è sempre importante. Ben che vada, si sarà scoperto un campione. In caso contrario, il giocatore avrà sempre il tempo per riproporsi. L'Inter non avrebbe alcunché da perdere. Contro il Borussia Dortmund, Esposito fece vedere bei numeri. Poi, ha avuto rare occasioni di mettersi in mostra. Quelle occasioni che Conte dovrebbe concedergli ora, facendo di necessità virtù.

Tour de France 1982: Hinault IV

Fu il Tour de France degli olandesi, quello del 1982, con quattro corridori piazzati tra i primi dieci della classifica generale. Due dei quali sul podio. Non sul gradino più alto, però, dove si assise, per la quarta volta in carriera, Bernard Hinault.


Route of the 1982 Tour de France.png
Tour de France 1982

L'asso bretone fu subito maglia gialla, con la vittoria nel cronoprologo di Basilea. Poi, il simbolo del primato passò sulle spalle del primo corridore australiano di grande valore, almeno su strada, Phil Anderson. Hinault, tornò in vetta il giorno della festa nazionale francese, dopo l'ennesima cronometro, vinta dall'olandese, si è detto che fu il loro Tour, Knetemann. L'avrebbe tenuta sino a Parigi, difendendola in montagna e puntellandola a cronometro, dove avrebbe colto altri due successi parziali a Martigue e Saint-Priest. 

A Parigi, primo Hinualt, secondo, per la sesta volta in carriera!, l'olandese Zoetemelk, a 6'21", terzo l'olandese Van der Velde, a 8'59", quarto l'olandese Peter Winnen, a 9'24". E poi nono l'olandese Kuiper

All'epoca, gli italiani disertavano in massa il Tour. Il meglio piazzato risultò lo scalatore Mario Beccia, trentatreesimo a 52'35".

Da segnalare che ci furono 145,2 km di cronometro individuale più 69 km di cronometro a squadre, per complessivi 214,2 km contro il tempo. E una cronometro a squadre di ulteriori 73 km fu annullata per via di una manifestazione. Evidente era l'intenzione degli organizzatori di favorire Hinault, formidabile cronoman. Dei suoi 28 successi parziali al Tour, 13 arrivarono contro il tempo! Tre meno di Merckx, 16 cronometro al Tour, a fronte dei 34 trionfi parziali, altro record!, terzo, in questa speciale classifica, un altro grande francese, ma normanno, Anquetil, 11 successi contro il tempo.

lunedì 15 giugno 2020

La stagione di Conte all'Inter: il bivio

L'eliminazione dalla Coppa Italia brucia ancora. Perché l'Inter ha sprecato l'occasione di giocare per il titolo. Come, in autunno, ha sprecato la possibilità di qualificarsi agli ottavi di Champions.

Conte era stato ingaggiato per vincere subito, definito da Marotta "top player metaforico". Per ora, è andata diversamente. Conte pratica sempre lo stesso calcio, fatto di corsa, pressing, gioco sulle fasce. Non rinuncia al dogma dei 3 difensori nemmeno contro un solo attaccante, com'è accaduto nella partita contro il Napoli. Il suo è un calcio logorante ed ormai privo di segreti per gli avversari. Funziona solo con una condizione atletica ottimale. Che, in una stagione, può durare pochi mesi. Figuriamoci ora, dopo la pausa imposta dal Covid

La stagione non è finita. E, al netto dei miei pregiudizi, mai negati, su Conte, per il suo passato bianconero - non l'avrei voluto all'Inter - potrebbe anche finire meglio di come si sia messa. In Europa League, la migliore Inter potrebbe dire la sua. E persino in campionato, vista la Juve arrancante ed un calendario favorevole, l'ipotesi di una rimonta è non del tutto irreale. Il problema è proprio ciò che sarà nel prossimo mese e mezzo. Vincere o andare vicini a vincere non sarebbe come piazzarsi terzi o, peggio, quarti in campionato, uscendo presto in Europa League

Né si può invocare i pretesi miglioramenti nel gioco. Che ho visto fino ad un certo punto. E fino a dicembre. Sicché, e concludo, o Conte vince l'Europa League (risultato minimo: semifinali) o vince il campionato (risultato minimo: secondo posto), oppure il sacrificio di accettarlo sulla panchina dell'Inter, per quel che mi riguarda, non sarà valso la pena. Anche perché non venitemi a dire che il Napoli di Gattuso è più forte dell'Inter. O che lo è la Lazio di Inzaghi, che dispone di una rosa palesemente più corta.

Tour de France 1978: la prima di Hinault

Bernard Hinault, bretone di Yffiniac, dopo essere passato al professionismo nel 1975, evitò di correre il Tour fino al 1978. Quando vi si presentò, dopo aver già conquistato la Vuelta a Espana. 

Route of the 1978 Tour de France.png
Tour de France 1978
La concorrenza era forte, dal connazionale Thevenet, vincitore di due Tour, tra cui l'ultimo del 1977, lo scalatore belga Van Impe e l'eterno secondo olandese Zoetemelk (che, poi, il suo unico Tour de France l'avrebbe conquistato a 34 anni nel 1980, approfittando proprio del ritiro di Hinault). 

La prima maglia gialla fu dell'olandese da classiche Raas. Nella quarta frazione, la cronometro a squadre penalizzò moltissimo Hinault, costretto a un difficile recupero. Il 7 luglio, giorno dell'ottava tappa, il suo primo acuto alla Grande Boucle. Contro il tempo: da Saint Emilion a Sainte-foi-la-Grande, in Nuova Aquitania, alla vigilia dei Pirenei. La maglia gialla si trasferì sulle spalle del belga Bruyère. 

Sui Pirenei, il ritiro inaspettato di Thevenet, che apriva spazio alle ambizioni di tutti gli altri, a cominciare da Hinault. Il giorno della festa nazionale francese, a cronometro, fu la volta di Zoetemelk, che si vestì di giallo all'esito della frazione conclusa sull'Alpe d'Huez: vincitore di giornata fu Kuiper, che precedette Hinault di soli 8". Zoetemelk prese comunque la maglia gialla, tenendola nelle successive frazioni alpine. Fino alla terza, e più lunga, cronometro  individuale di quel Tour, 72 km, da Metz a Nancy, che Hinault stravinse, infliggendo a Zoetemelk un ritardo di 4'10", quasi 3,5" a chilometro! Fu il trionfo, poi celebrato due giorni dopo a Parigi. Dove salì sul gradino più alto del podio, precedendo Zoetemelk di 3'56" ed il portoghese Agostinho di 6'54".

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Bernanrd Hinault, 1978
Per Hinault, sarebbe stato il primo di cinque Tour de France. Il secondo dei dieci Grandi Giri conquistati in una carriera straordinaria.

sabato 13 giugno 2020

Napoli-Inter: 1-1. Conte fallisce ancora. Napoli in finale di Coppa Italia

Stadio San Paolo di Napoli, ore 21.00.

L'Inter cerca di rimontare il risultato dell'andata. E ci riesce subito con un angolo di Eriksen che sorprende Ospina. Il portiere del Napoli saprà poi riscattarsi con almeno due grandi parate. E l'assist per Insigne, che, a fine  primo tempo, guida magistralmente un ribaltamento di fronte dopo un angolo per l'Inter. Gol di Mertens, che sale a 122 gol  nella storia azzurra. Staccato Hamsik. Il belga è capocannoniere assoluto. Pessimo lo schieramento della difesa nerazzurra nell'azione. Prendere un gol in contropiede, essendo in vantaggio, è un'assurdità. Evidenti le colpe di Conte, che non ha saputo guidare il posizionamento dei suoi uomini. E certe situazioni vanno previste e preparate in allenamento. È toccato ad Eriksen rincorrere Insigne! Nella ripresa, Inter sotto tono. A nulla sono serviti i cambi.  Certo, Sanchez ha fatto meglio di un impalpabile Lautaro. E Lukaku, ma questa non è una notizia, le partite importanti le sbaglia tutte. Tre centrali difensivi contro il solo Mertens mi sono sembrati troppi. E poi Skriniar e Bastoni sono troppo lenti per fare il mezzo destro e il mezzo sinistro. La stagione nerazzurra non ha preso una bella piega. In virtù della vittoria all'andata, il pareggio di stasera ha qualificato il Napoli alla finale contro la Juve. Altro obiettivo fallito da Conte, dopo la mancata qualificazione agli ottavi di Champions. 

venerdì 12 giugno 2020

Juve-Milan 0-0. Juve in finale di Coppa Italia

Partita appena decente. Del resto, dopo una così lunga pausa, sarebbe stato irragionevole attendersi di più. Il Milan è anche rimasto in dieci. Errore dal dischetto per un Cristiano Ronaldo poco in forma. Il Milan ha potuto solo difendersi, mostrando molti limiti di qualità, acuiti dall'assenza di un finalizzatore. Una notazione su Donnarumma: la sua tecnica resta molto rozza e rudimentale. Non tiene un pallone.  Raramente azzarda una presa e le sue respinte sono goffe.  Penso, ma lo scrivevo anche anni fa, che sia sopravvalutato. 

Classifica dei goleador nelle fasi finali di Mondiali, Europei e Coppa America

I gol si sommano e si contano. Ma, si pesano anche. Intendo proporre una classifica dei maggiori goleador nelle fasi finali delle tre grandi competizioni per nazionali di calcio:
  • Mondiali
  • Europei
  • Copa America
                                        
 Calciatore Paese Mondiali Europei Copa America  Totale
1. Ronaldo da Lima  Brasile 15 gol         - 10 gol 25 gol
2. Gabriel O. Batistuta  Argentina 10 gol         - 13 gol 23 gol
3. Pelé Brasile 12 gol         -   8 gol 20 gol
4. Miroslav Klose Germania  16 gol         3 gol                          -       19 gol
5. Zizinho Brasile 2 gol  17 gol 19 gol
6. Gerd Muller Germania Ovest 14 gol 4 gol         - 18 gol
7. Norberto Mendez  Argentina        -          - 17 gol 17 gol
8. Cristiano Ronaldo Portogallo   7 gol 9 gol         - 16 gol
9. Jurgen Klinsmann  Germania  11 gol  5 gol          - 16 gol
10. Jair Rosa Pinto Brasile   2 gol  13 gol  15 gol
11. Paolo Guerrero Perù   1 gol         - 14 gol 15 gol
12. Hector Scarone Uruguay   1 gol          - 13 gol  14 gol
13. Lionel Messi Argentina    6 gol         -   8 gol 14 gol
14. Edu Vargas  Cile   1 gol         - 13 gol 14 gol
15. Just Fontaine Francia 13 gol         -          - 13 gol
16. Michel Platini  Francia   4 gol 9 gol          - 13 gol
17. David Villa Spagna   9 gol 4 gol          - 13 gol
18. José M. Moreno Argentina       -         - 13 gol 13 gol
19. Bebeto Brasile    6 gol         -   6 gol 12 gol
20. Gonzalo Higuain Argentina   5 gol         -   7 gol 12 gol
21. Rudi Voeller Germania    8 gol 4 gol          - 12 gol
22. Roberto Porta Uruguay       -         - 12 gol 12 gol
23. Angel Romano Uruguay       -         - 12 gol 12 gol
24. Sandor Kocsis Ungheria   11 gol         -          - 11 gol
25. Herminio Masantonio  Argentina       -         - 11 gol 11 gol
26. Victor Ugarte Bolivia       -         - 11 gol 11 gol

Inter si decide la stagione: domani Napoli-Inter

La stagione dell'Inter entra, anzi rientra, nel vivo. La semifinale di ritorno di Coppa Italia, contro il Napoli, dopo lo 0-1 casalingo dell'andata, è il primo serio crocevia di un'annata calcistica anomala, ancora suscettibile di assumere qualunque piega. Può essere un successo, una transizione o un fallimento. E credo che Conte e Marotta lo sappiano.

Napoli-Inter
Domani sera, al San Paolo, l'Inter dovrebbe schierare la seguente formazione:

Handanovic; Skriniar, De Vrij, Bastoni; Candreva, Brozovic, Barella, Young, Eriksen; Lukaku, Lautaro Martinez.


Classifica dei primi dieci goleador in attività

Propongo una classifica aggiornata dei primi dieci goleador in attività.

 Cristiano Ronaldo Portogallo  737 gol
 Lionel Messi Argentina 710 gol
 Zlatan Ibrahimovic Svezia 546 gol
 Robert Lewandowski Polonia 478 gol
 Luis Suarez Uruguay 473 gol
 Sergio Aguero  Argentina 422 gol
 Klaas-Jan Huntelaar Olanda 418 gol
 Edinson Cavani Uruguay 403 gol
 Neymar Brasile 379 gol
 Wayne Rooney Inghilterra 363 gol

Il mito di Roberto Rivelino

Rivelino, all'anagrafe brasiliana, Roberto Rivellino, è stato uno dei massimi calciatori della storia brasiliana. Di schiette origini italiane, intraprese la sua leggendaria carriera nel Corinthians di San Paolo. Numero 10, nel Paese, il Brasile, dove quel numero aveva assunto, già prima di Pelé, una dimensione simbolica, narrativa, immaginifica e quasi magica. Quando ancora in Europa si delirava per il 9, il centravanti, i brasiliani subivano l'incantamento delle giocate impreviste e spettinate dei grandi artisti, di cui il 10 sulla maglia era il primo e più immediato segno di distinzione.


Rivelino è un brevilineo dalla corporatura massiccia che occhieggia alla pinguedine. Alto 1,69 m, supera di non poco i 70 kg. Il baricentro basso, unito ad una tecnica da prestigiatore, è il segreto dei suoi improvvisi cambi di direzione, che lasciano sul posto i difensori avversari, che sottopone anche a continui tunnel e ad un dribbling di cui, con il tempo, acquisterà la privativa: l'elastico. Il suo mancino accarezza il pallone, ora da sinistra verso destra e ritorno, ora da destra verso sinistra e ritorno. Va sempre via al malcapitato controllore di turno.

Ai mondiali messicani del 1970, Rivelino è uno dei cinque numeri dieci che l'allenatore Zagallo, già due volte campione del mondo con la nazionale verdeoro da giocatore, pretende di far convivere. Con lui ci sono Gerson, Jairzinho, Tostao e sua maestà Pelè. Il dieci, noblesse oblige, andrà a quest'ultimo, Tostao si adatterà a giostrare da centravanti, Jairzinho agirà da ala destra, Gerson da mezzala e Rivelino andrà all'ala sinistra. Sarà un trionfo. Rivelino incanta.

Stampa:Brazil 1970.JPG - Wikipedija
Brasile 1970
Rivelino è alla sinistra di Pelé

Ai mondiali tedeschi del 1974, con il precoce ritiro dal calcio di Tostao e l'abbandono della nazionale da parte di Pelè, sarà proprio Rivelino il giocatore simbolo del Brasile, il cui sogno s'infrangerà contro il gioco totale dell'Olanda. Quarto posto finale.

Il giovane Maradona, argentino, e perciò poco propenso all'ammirazione dei brasiliani, confesserà, all'apice della fama, di essersi ispirato a due campioni degli anni '70: il connazionale Bochini e, come si sarà intuito, Roberto Rivelino. Maestro del dribbling, dell'assist e del tiro.

giovedì 11 giugno 2020

Indurain e Froome: i più vecchi campioni dei Grandi Giri

Non c'è un 'età per vincere nelle grandi corse a tappe. C'è, questo sì, un'età per non vincere più. La soglia fatidica si colloca intorno ai 34 anni. Si potrebbe obiettare che siffatta affermazione sia priva di basi scientifiche. No. Una base statistica, sempre che la statistica sia una scienza, c'è. Nella storia del Tour de France, del Giro d'Italia e della Vuelta a Espana, nessuno ha vinto, parlo della classifica generale, oltre i 34 anni. Insomma nessuno che ne avesse compiuti 35. Con la sola eccezione di Horner, vincitore della Vuelta nel 2013 a quasi 42 anni! Eccezione clamorosa, ma solitaria. A fronte di 106 Tour, 102 Giri e 74 Vuelta: 282 Grandi Giri! 

E la spiegazione, dal fisiologo che non sono, mi pare tutto sommato semplice. Con l'incedere del tempo, diminuiscono le doti di recupero. Se ne hanno testimonianze univoche in tutti gli sport, non soltanto nel ciclismo. Dopo una certa età, bisogna allenarsi di più e si recupera di meno, più lentamente. Va da sé che, nel ciclismo, si possa restare molto competitivi, in età agonisticamente avanzate, nelle corse di un giorno o nelle brevi corse a tappa, mentre sia più difficile tenersi a galla nei Grandi Giri, che si svolgono in tre settimane, per più di 3.000 km, con due soli giorni di riposo. 

C'è un altro dato significativo. I grandi dominatori di Tour, Giro e Vuelta, hanno tutti cominciato prestissimo o presto a vincere. Bartali vinse il suo primo Giro, nel 1936, prima di compiere 22 anni; Coppi ottenne il suo primo Giro prima di compierne 21; Anquetil conquistò il Tour, nel 1957, a 23 anni e pochi mesi; Gimondi, vinse il Tour, nel 1965, prima dei 23 anni; Merckx colse il primo Giro, nel 1968, a 23 anni; Hinault, la prima Vuelta a 23 anni e mezzo e il primo Tour tre mesi dopo. Più avanti, lo stesso Alberto Contador vinse il primo Tour a meno di 25 anni.


File:Miguel INDURAIN.jpg - Wikimedia Commons
Miguel Indurain in maglia gialla
Dei plurivincitori dei Grandi Giri, il meno precoce fu, a lungo, Miguel Indurain. Che, sì, prima del successo del 1991 a Parigi, era stato decimo al Tour dell'anno precedente. E, certo, aveva nel palmares già un bel po' di brevi corse a tappe: due Parigi-Nizza, il Criterium Internazional e via dicendo. Sicché si poteva immaginare che avesse doti per vincerne anche una di tre settimane. Ma, non era detto. La storia è piena di corridori che hanno vinto le une, quelle brevi, e non le altre. Tanto più che Indurain, che vinse il primo Tour a 27 anni appena compiuti, riuscì ad annettersi anche i quattro successivi, oltre ai Giri del 1992 e del 1993. Cosa voglio intendere? Nulla, riporto solo dati. Continuo a non spiegarmi come Indurain sia riuscito a passare in una stagione da buon corridore di brevi corse a tappe a dominatore incontrastato dei Grandi Giri. Al netto dei racconti apologetici successivi, quando passò professionista, nel 1986, nessuno l'avrebbe detto, nessuno lo diceva. Era ben superiore, all'esordio nel professionismo, la reputazione dei suoi coetanei, Gianni Bugno ed Erik Breukink.


File:Tour de France 2017, froome uran (36124020176).jpg - Wikipedia
Chris Froome in maglia gialla precede Rigoberto Uran

Poi, nel 2013, c'è stato il successo di Froome, a 28 anni, uno più di Indurain quando vinse il Tour del 1991. Ad onor del vero, Froome era stato già secondo al Tour un anno prima, nel 2012, quando ordini di squadra forse gli vietarono di spodestare il capitano Wiggins. E, sempre ad onor del vero, a Froome è stato assegnato, anni dopo e a tavolino, anche il successo nella Vuelta 2011, quando di anni ne aveva 26. Ed allora, tra i plurivincitori delle grandi corse  a tappe, il primato di "anzianità" d'affermazione di Miguel Indurain resta.

Ci sarebbe e c'è, tra i grandi, ma vinse solo il Tour, sebbene tre volte di seguito, Louison Bobet. Si aggiudicò il suo primo Tour a 28 anni, nel 1953. Prima di allora, tuttavia, era già arrivato terzo e quarto alla Grande Boucle.