È uscito dal campo anche Mariolino Corso, l'11 della Grande Inter. Il più svogliato, talentuoso, imprevedibile giocatore di quella squadra irripetibile, che segnò un 'epoca.
Corso era approdato all'Inter a soli 17 anni, nel 1958, quando Angelo Moratti, da tre anni subentrato a Masseroni alla presidenza, cercava con ostinazione la vittoria. Dal 1959, cominciò a trovare posto tra i titolari. E subito gli esperti iniziarono a domandarsi quale fosse il suo ruolo. Sì perché Corso, participio passato del verbo correre, la palla la voleva tra i piedi. Poi, inventava. Chiedeva un triangolo, cambiava gioco, lanciava di prima, batteva a rete o avanzava in dribbling. E, una volta iniziata la progressione, non c'era più modo di fermarlo. Perché la sua falcata era ampia, il controllo del pallone assoluto, cioè sciolto da ogni esterna interferenza. E un difensore che avesse arrischiato un anticipo, avrebbe subíto l'onta del tunnel. Come usava Sivori, che Corso ammirava e che gratificò di due tunnel appena si affrontarono.
Il segreto di Corso stava nella caviglia? Anche, certo. Come quello di McEnroe sarebbe stato nel polso. Strabiliò con le sue punizioni a "foglia morta", che sembravano quelle a "folha seca" di Didì. Con la palla che sormontava la barriera e poi scendeva, anzi s'inabissava nella rete con il portiere immobile. Un prodigio tecnico, che le cronache degli anni '30 riconobbero anche al sommo Meazza. Chi volesse davvero farsi un'idea dell'estro impareggiabile di Mariolino Corso dovrebbe leggere "Il più mancino dei tiri" di Edmondo Berselli, anno 1995. Lì c'è tutto.
Nel 1960, arriva Herrera sulla panchina dell'Inter. E comincia subito con Corso una lunga, ma fertile antipatia. Herrera è un visionario. Opera una rivoluzione: preparazione atletica intensa, esercizi tattici frequenti, rigore alimentare e ricerca dell'intensità. Corso scalpita. Detesta allenarsi e trova insopportabile l'enfasi retorica del Mago. Che parla troppo per i suoi gusti. Non è il solo a pensarla così. Brera lo battezza "Habla Habla". Corso, mentre sprona la squadra, mormora invece un più incisivo: "tasi mona".
Tutti i campionissimi dell'Inter pendono dalle labbra di Herrera. Da Mazzola a Facchetti a Suarez. Tranne due: il capitano Picchi, che in campo si permette di dare ordini diversi da quelli del Mago, e Mario Corso, che porta in campo il calcio della strada, quello istintivo e primordiale. Non corre e men che meno rincorre, gioca dove la tribuna ombreggia il prato e si concede lunghe pause di contemplazione. È un'insubordinazione che Herrera non gli perdona: ogni anno il suo nome è il primo nella lista dei cedibili consegnata ad Angelo Moratti. Ma, Moratti, che aveva accontentato Herrera, mandando via Angelillo, Corso, lo difende. È il suo pupillo. Non solo non va via ma deve giocare titolare. Herrera si adegua. Seguiranno tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Molti i gol decisivi del suo mancino, di più gli assist. Nelle difficoltà, palla a Suarez o palla a Corso. È l'arma tattica più micidiale di quella squadra leggendaria.
Herrera va via nel 1968. Corso resta. E guida l'Inter, con Mazzola e Facchetti e Burgnich e Jair, ad un altro storico scudetto nel 1971 e alla finale di Coppa dei Campioni del 1972, persa contro l'Ajax di Crujff.
In nazionale, Corso gioca. Ma non quanto meriterebbe. Gli si rimprovera l'anarchia tattica. Come al solito. Ha più problemi di Rivera. Nell'ottobre del 1961, la nazionale italiana va in trasferta a Tel Aviv: doppietta di Corso nel 4-2 contro Israele. Il tecnico israeliano, stupito dalle magie di Corso, lo definisce il "piede sinistro di Dio".
Amatissimo dai tifosi, amatissimo dai presidenti, anche Massimo Moratti, condividerà la predilezione del padre, Corso è un simbolo intramontabile dell'Inter e dell'idea dell'Inter. Successore di Skoglund e predecessore di Beccalossi e di Recoba. Gli altri mancini che hanno reso romantica la storia della squadra più romantica.
Giocava con i calzettoni abbassati, Mariolino Corso. Tanto sapeva che i difensori avversari non l'avrebbero preso. Caracollava invece di correre. Poetava, prima che il calcio diventasse prosa. La terra gli sia lieve.
Il segreto di Corso stava nella caviglia? Anche, certo. Come quello di McEnroe sarebbe stato nel polso. Strabiliò con le sue punizioni a "foglia morta", che sembravano quelle a "folha seca" di Didì. Con la palla che sormontava la barriera e poi scendeva, anzi s'inabissava nella rete con il portiere immobile. Un prodigio tecnico, che le cronache degli anni '30 riconobbero anche al sommo Meazza. Chi volesse davvero farsi un'idea dell'estro impareggiabile di Mariolino Corso dovrebbe leggere "Il più mancino dei tiri" di Edmondo Berselli, anno 1995. Lì c'è tutto.
Nel 1960, arriva Herrera sulla panchina dell'Inter. E comincia subito con Corso una lunga, ma fertile antipatia. Herrera è un visionario. Opera una rivoluzione: preparazione atletica intensa, esercizi tattici frequenti, rigore alimentare e ricerca dell'intensità. Corso scalpita. Detesta allenarsi e trova insopportabile l'enfasi retorica del Mago. Che parla troppo per i suoi gusti. Non è il solo a pensarla così. Brera lo battezza "Habla Habla". Corso, mentre sprona la squadra, mormora invece un più incisivo: "tasi mona".
Tutti i campionissimi dell'Inter pendono dalle labbra di Herrera. Da Mazzola a Facchetti a Suarez. Tranne due: il capitano Picchi, che in campo si permette di dare ordini diversi da quelli del Mago, e Mario Corso, che porta in campo il calcio della strada, quello istintivo e primordiale. Non corre e men che meno rincorre, gioca dove la tribuna ombreggia il prato e si concede lunghe pause di contemplazione. È un'insubordinazione che Herrera non gli perdona: ogni anno il suo nome è il primo nella lista dei cedibili consegnata ad Angelo Moratti. Ma, Moratti, che aveva accontentato Herrera, mandando via Angelillo, Corso, lo difende. È il suo pupillo. Non solo non va via ma deve giocare titolare. Herrera si adegua. Seguiranno tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Molti i gol decisivi del suo mancino, di più gli assist. Nelle difficoltà, palla a Suarez o palla a Corso. È l'arma tattica più micidiale di quella squadra leggendaria.
Herrera va via nel 1968. Corso resta. E guida l'Inter, con Mazzola e Facchetti e Burgnich e Jair, ad un altro storico scudetto nel 1971 e alla finale di Coppa dei Campioni del 1972, persa contro l'Ajax di Crujff.
In nazionale, Corso gioca. Ma non quanto meriterebbe. Gli si rimprovera l'anarchia tattica. Come al solito. Ha più problemi di Rivera. Nell'ottobre del 1961, la nazionale italiana va in trasferta a Tel Aviv: doppietta di Corso nel 4-2 contro Israele. Il tecnico israeliano, stupito dalle magie di Corso, lo definisce il "piede sinistro di Dio".
Amatissimo dai tifosi, amatissimo dai presidenti, anche Massimo Moratti, condividerà la predilezione del padre, Corso è un simbolo intramontabile dell'Inter e dell'idea dell'Inter. Successore di Skoglund e predecessore di Beccalossi e di Recoba. Gli altri mancini che hanno reso romantica la storia della squadra più romantica.
Giocava con i calzettoni abbassati, Mariolino Corso. Tanto sapeva che i difensori avversari non l'avrebbero preso. Caracollava invece di correre. Poetava, prima che il calcio diventasse prosa. La terra gli sia lieve.