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martedì 9 gennaio 2024
mercoledì 26 maggio 2021
Addio a Tarcisio Burgnich: eroe della Grande Inter
Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso
Avevo appena finito di ricordare che, 50 anni fa, era scomparso Armando Picchi, libero e capitano della Grande Inter, quando mi sono accorto che era venuto a mancare Tarcisio Burgnich che, di quella squadra leggendaria e paradigmatica e irripetibile e iconica di una stagione meravigliosa, era stato il terzino destro, il gladiatore, il marcatore arcigno e insuperabile. Spalle larghissime, quadricipiti poderosi, stacco imperioso. Il tormento per ogni attaccante, che si aggirasse dalle sue parti. Classe 1939, visse tutta l'epopea di quella squadra voluta e plasmata da Angelo Moratti ed Helenio Herrera. E riuscì a vincere anche dopo, lo scudetto in rimonta del 1971, quando della Grande Inter erano rimasti lui, Facchetti, Mazzola, Jair e Corso. La formazione sopracitata divenne una cantilena, una filastrocca. C'è una scena di Ecce Bombo di Nanni Moretti che lo spiega plasticamente. E fu colonna anche della nazionale Tarcisio Burgnich, campione europeo nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970, passando gli ultimi anni di carriera, nel ruolo di libero, perché aveva anche acume tattico a chili il formidabile difensore friulano. Che la terra gli sia lieve.
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C'era una volta Armando Picchi: colonna della Grande Inter. Manca da mezzo secolo
Era nato il 20 giugno del 1935, a Livorno, Armando Picchi. Un brevilineo di costituzione robusta, che aveva giocato per una vita da terzino destro, senza brillare. Tenace nei contrasti, attento nella marcatura. Fino a venticinque anni. Dopo le esperienze con la squadra della sua città e la stagione (1959/60) alla Spal, Picchi approdò all'Inter, che era appena stata affidata alle cure tecniche di Helenio Herrera: allenatore di nazionalità argentina ma randagio e giramondo, ossessionato dal gioco del calcio, colto, spiritoso, istrionico e motivatore sommo. Uno che avrebbe rivoluzionato il calcio italiano e internazionale, conferendo al ruolo dell'allenatore un fascino e una centralità prima mai sperimentate. Chi ricorda i nomi degli allenatori del Real Madrid che aveva appena finito di vincere 5 Coppe dei Campioni consecutive? Ecco, intanto Herrera, con il Barcellona di Kubala e Suarez, quel Real l'aveva battuto due volte per il titolo di campione di Spagna. Ed era stato capace, all'inizio degli anni '50, di vincere due scudetti anche con l'Atletico Madrid. Angelo Moratti l'aveva scelto perché ne aveva riconosciuto le stimmate del vincente. Herrerà, però, del calcio italiano sapeva poco. Al debutto, si era presentato come un offensivista - perché il Barcellona ha sempre avuto una vocazione di quel tipo anche prima di Cruijff - e il suo obiettivo dichiarato era quello di segnare più di 100 gol in campionato: insomma ai ritmi che erano stati soltanto del Grande Torino. Il campo, dove le squadre italiane, pur non tutte, già praticavano un solido calcio di rimessa, suggerì ad Herrera di cambiare spartito. Picchi fu spostato nel ruolo di libero: Herrera ne aveva riconosciuto il carisma, l'innata sapienza calcistica, la facilità di lettura delle azioni, la dote di preveggenza delle traiettorie. Sarebbe divenuto il perno della Grande Inter, specialmente dopo l'arrivo, nel 1961, di Suarez. Picchi, promosso capitano, comandava la difesa e guidava moralmente tutti, Suarez, dirigeva il gioco. E non era catenaccio, perché in quella squadra Facchetti attaccava come un'ala, a centrocampo Corso regalava olio su tela, passeggiando, di Suarez s'è detto, e c'erano gli scatti di Jair e le serpentine ardite di Sandro Mazzola. Attesa e contropiede, a volte, sì. Ma anche attacchi corali contro difese schierate. E, sempre, una solidità difensiva degna de La Rochelle. Quell'Inter, capitanata da Picchi, che telecomandava i compagni della difesa, avrebbe potuto difendere un 1-0 per ore. Arrivarono successi in serie: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Fino al tramonto, improvviso e bruciante del 1967: in pochi giorni una Coppa dei Campioni persa contro il Celtic Glasgow (ma mancava Suarez) e uno scudetto finito alla Juve, per la papera di Sarti contro il Mantova. Herrera e Picchi non si prendevano più. Pare che il Mago fosse geloso della leadership del capitano e del rispetto che i compagni gli portavano. Pare. Picchi andò al Varese. Un anno dopo andò via anche Herrera. E lo stesso Angelo Moratti passò la mano in favore di Fraizzoli. Picchi si preparava ad una grande carriera da allenatore. Prima proprio a Varese, poi nella sua Livorno. Finché lo chiamò Boniperti alla Juve. Prima, però, giocando nella nazionale, durante Italia-Bulgaria del 26 aprile 1968, una caduta rovinosa, la frattura del bacino, una botta tremenda, le cure forse inadeguate. E un dolore che non sarebbe passato più. Fino a diventare un cancro. Il 26 maggio del 1971, mezzo secolo fa, Picchi moriva per un singolarissimo tumore alla costola, dopo aver lasciato - sopraffatto da dolori lancinanti - la panchina della Juve a campionato in corso, dopo che l'Inter aveva appena conquistato il suo undicesimo scudetto. Armando Picchi non aveva ancora compiuto 36 anni. E sono cinquant'anni oggi. Lo stadio del Livorno porta il suo nome.
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lunedì 29 aprile 2019
Storia del ruolo del libero: il catenaccio
- Il catenaccio è, oggi, il più disprezzato e incompreso sistema di gioco nel calcio. Eppure ha dato frutti copiosissimi, specialmente alle squadre italiane. Nato in Svizzera, negli anni '30, dietro l'intuizione del tecnico austriaco Karl Rappan, che tolse uno dei tre attaccanti, per aggiungere un battitore libero, che agisse dietro i difensori, rimediasse ai loro errori, sapesse leggere le traiettorie e spazzasse l'area di rigore, il catenaccio fu perfezionato in Italia, da Viani, alla Salernitana. Per raggiungere vette di eccellenza con Nereo Rocco, al Milan, ed Helenio Herrera, all'Inter, che vi si convertì dopo essere giunto in Italia con la fama di spregiudicato offensivista: il suo Barcellona, illuminato dal genio di Suarez, che poi volle all'Inter, e Kubala, faceva gol a grappoli e batteva in campionato il Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni consecutive. Capì, da noi, quanto importante fosse la difesa e, più ancora, la fase difensiva. L'Italia, di Coppe dei Campioni, se ne aggiudicò quattro negli anni '60, 2 con il Milan e 2 con l'Inter, con squadre attrezzate per difesa e contropiede, sebbene anche ricche di estro e di giocatori estrosi. E il catenaccio, che nel libero aveva la propria pietra d'angolo, divenne decisivo e proverbiale e, secondo alcuni, Brera su tutti, didascalico di una vocazione nazionale.
- Il libero, dicevo, è stato, checché ne dica la vulgata dispregiativa, una delle ultime grandi invenzioni della tattica calcistica. Armando Picchi fu il primo grandissimo interprete del ruolo. Studiato dappertutto, come dappertutto fu studiato il modo di giocare di Facchetti, primo terzino sinistro capace di attaccare come un'ala e di segnare come un centravanti. Picchi aveva a lungo giostrato da terzino, con esiti buoni ma non memorabili. Divenuto libero, il suo carisma, la sua acutissima intelligenza calcistica, la sua innata capacità di posizionarsi dove il pallone sarebbe finito o potuto finire, la sua pulizia di battuta, ne fecero il perno della Grande Inter, capace di resistere indenne agli assalti dei migliori attacchi del tempo. I tedeschi, che criticano gli italiani, ma nel fondo li ammirano fino alla gelosia, furono i primi in Europa ad abbracciare la nuova filosofia. Franz Beckenbauer, ch'era stato centrocampista grande, divenne libero sommo. Conferendo al ruolo le peculiarità della sua maestria tecnica e della sua esuberanza atletica. Non solo chiudeva in ultima battuta, ma usciva dalle situazioni più intricate palla al piede, lanciava o scambiava con i centrocampisti, spesso arrivando a liberare il suo gran tiro. Elegante e comandante. Il Kaiser. E nacque il libero alla tedesca. Stielike e Sammer avrebbero giocato come lui. Nati centrocampisti. Anche Schuster, Thon e Matthaus avrebbero chiuso la carriera da liberi. Alla tedesca. La rivoluzione di Beckenbauer avrebbe ispirato un'interpretazione più offensiva del ruolo anche in Italia. Scirea, tecnicamente superiore, Franco Baresi ma anche Graziano Bini sarebbero stati liberi eleganti e primi registi della squadra. Nello stesso periodo, in Argentina, Daniel Passarella, al netto delle durezze tipiche del suo calcio, avrebbe fatto il libero a quel modo, grazie ad un sinistro chirurgico. Ancora ai mondiali del 1982, tanto per dire, le punizioni erano una sua privativa, sebbene con lui giocasse il giovane Maradona. Stesso di discorso per il cileno Figueroa, leader della difesa e della squadra, uno dei migliori giocatori del mondo in assoluto degli anni '70, e per Krol, che nato terzino sinistro nell'Ajax e con l'Olanda, da libero incantò nella seconda parte della carriera e fu un idolo della tifoseria del Napoli nei primi anni '80.
- Il catenaccio entrò in crisi alla fine degli anni '80, con il sacchismo, avendo invece resistito alla rivoluzione del calcio posizionale degli olandesi degli anni '70. Si passò alla difesa a zona, all'affollamento in mezzo al campo, al fuorigioco sistematico, al fallo tattico, al pressing ossessivo. Soprattutto, si abdicò al calcio verticale. Ed entrò in crisi anche il ruolo di libero. Come entrò in crisi il ruolo del n. 10, del giocatore di classe e fantasia, di cui non si tolleravano più le pause. I calciatori si trasformarono in qualcosa di molto vicino ai culturisti. Diminuì la cifra tecnica complessiva. Il gioco si velocizzò moltissimo. L'ultimo esempio di grande libero vincente, fu, nell'Inter di Simoni, Beppe Bergomi: lo storico capitano nerazzurro già grandissimo terzino destro-marcatore, che si era disimpegnato anche a sinistra, con Hodgson, e da stopper, all'occorrenza, divenne il perno difensivo di una squadra, illuminata dal talento futurista di Ronaldo da Lima, capace di vincere la Coppa Uefa e di sfiorare uno scudetto, che, sul campo, avrebbe meritato: anno di grazia 1998.
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