La leggenda della "saeta rubia", al secolo Alfredo Di Stefano, argentino naturalizzato spagnolo, ma di schiette origini italiane, non è finita. Con la scomparsa di uno dei maggiori campioni della storia del calcio, si presenta semmai l'occasione di ricordarne la straordinaria carriera. Dei successi, innumerevoli, tanti hanno già scritto e soprassiedo, troppo essendo noti. Quel che mi preme ricordare è che Di Stefano è stato il prototipo del calciatore universale, che sposava alla tecnica sopraffina, tuttavia lontana da guizzi e ghirigori, una complessione da quattrocentista, un fisico statuario, specialmente ai tempi suoi, che gli valse il soprannome di "saeta rubia", freccia bionda, ma anche di "el aleman", il tedesco, perché biondo, poi i capelli si diradarono, e forte come un germanico. E poi era resistente, tatticamente acutissimo, formidabile al momento di battere a rete. E vinceva i contrasti e serviva i compagni. Un centravanti a tutto campo. Un comandante in campo, cui tutti dovevano obbedienza calcistica. E chi, come Didì al Real Madrid, non si piegava, doveva cambiare aria. Prima di lui, per la verità, a livelli non meno eccelsi, si era espresso Valentino Mazzola, strapotente mezzala sinistra del Grande Torino, strappato alla vita anzitempo a Superga. Poi, con minor intensità, Bobby Charlton. Infine, Cruijff, meno possente di Di Stefano, ma tanto più veloce. Un solo neo nella carriera di Di Stefano, nessuna partecipazione ai mondiali. Né con la maglia dell'Argentina né con quella della Spagna. Sicché il suo nome resta indissolubilmente legato a quello del Real Madrid delle prime cinque consecutive Coppe dei Campioni. La leggenda della "saeta rubia" continua.