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lunedì 22 gennaio 2024

Addio a Gigi Riva "Rombo di Tuono"

"Un autentico eroe del nostro tempo: per me non è mai nato nel calcio italiano uno come Gigirriva da Leggiuno. L'ho soprannominato prima Re Brenno e poi, dubitando del nostro senso storico, sono sceso a una metafora più western come "Rombo di tuono". Ha avuto fortuna almeno pari a quella di Toro Seduto". (Gianni Brera)

Nato durante la guerra, come tutta la generazione d'oro di calciatori italiani che s'impose tra gli anni '60 e '70, Luigi Riva, detto Gigi, classe '44, è stato un'icona e un simbolo. Del Cagliari, che condusse a uno storico scudetto nel 1970. Del ruolo di attaccante irriducibile e coraggioso fino quasi alla temerarietà; della nazionale italiana, della quale resta, ancora oggi, il maggior cannoniere con 35 reti. Nato a Leggiuno, sponda lombarda del Lago Maggiore, presto orfano, giunse in Sardegna diciannovenne, per non andarsene più. Alto, per i tempi alto, forte, dotato di un sinistro potentissimo, di un dribbling essenziale, di uno scatto perentorio, di un gran colpo di testa, di audacia agonistica e doti acrobatiche. Centravanti o ala sinistra, attaccante unico nel suo genere. Brera lo soprannominò "Rombo di Tuono". Due gravissimi infortuni con la maglia azzurra, per sfortuna e perché si gettava sempre nella mischia, forse troppo.

Riva in maglia azzurra

Campione d'Europa con gli azzurri  nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970, in Messico. Dove giocò però una finale anonima. Idolo dei tifosi, non solo cagliaritani. Andò oltre il calcio. Lo conoscevano tutti, come conoscevano Mazzola e Rivera. Riva, poi, era anche un beniamino delle donne, che per lui andavano pazze, come 30 anni prima per Meazza. Resta il ricordo del grande calciatore  secondo al Pallone d'oro del 1969 (dietro Rivera e davanti a Gerd Muller), terzo nel 1970 (dietro Gerd Muller e Bobby Moore). Tre volte capocannoniere della serie A e gol che sono diventati proverbiali. Rifiutò sempre di lasciare Cagliari e la Sardegna, rinunciando a ingaggi più ricchi e questa nettezza d'intenzione, questo disinteresse, contribuì ulteriormente alla sua leggenda. 

giovedì 9 luglio 2020

Il calcio degli anni '60. La rinascita italiana

Gli anni '60 segnarono il riscatto del calcio italiano, dopo il buio del decennio precedente, contrappuntato da due eliminazioni al primo turno, ai mondiali del 1950 e del 1954, e dalla mancata qualificazione ai mondiali di Svezia del 1958, poi grottescamente replicata 60 anni dopo, quando l'Italia non riuscì ad arrivare a Russia 2018.


Parlavo di riscatto, sì. E le ragioni di questa formidabile ripresa vanno anzitutto ricercate nella resurrezione di tutta la Penisola dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Era l'Italia del boom economico, con i consumi che raddoppiavano, il PIL che cresceva quasi a due cifre, lo sport che diventava fenomeno di massa. Era accaduto, proprio intorno al 1958 peraltro, che il calcio superasse, tra gli appassionati, il ciclismo, per guadagnare un primato mai più discusso di sport nazionale.


Eppure i mondiali del 1962, vinti dal Brasile, che si permise di rinunciare a Pelé, presto infortunato, e quelli del 1966, conquistati in casa dall'Inghilterra, videro ancora gli azzurri fuori al primo turno. Nel 1962, fallì la politica degli oriundi, i fortissimi sudamericani con origini italiane, spesso assai remote. Di quella spedizione fecero parte assi del calibro di Altafini, che aveva vinto il mondiale del 1958 con il Brasile, Sivori, Maschio, Sormani. Andò male, pare anche per le continue ingerenze sulle scelte tecniche della stampa specializzata, che all'epoca aveva, su un calcio visto da pochissimi, un ascendente quasi sacerdotale e per un arbitraggio ostile contro i padroni di casa del Cile. Andò persino peggio nel 1966 in Inghilterra, quando la Corea del Nord eliminò l'Italia, pur con l'attenuante del precoce infortunio occorso a Bulgarelli, quando, ancora per pochi anni, non erano permesse le sostituzioni.

Eppure l'Italia aveva iniziato a dominare le competizioni internazionali per club, vincendo tre Coppe dei Campioni consecutivamente: con il Milan di Rivera e Cesare Maldini e Altafini e Trapattoni, nel 1963; con l'Inter allenata da Herrera e capitanata da Picchi, nel 1964 e nel 1965, con la regia di Suarez, gli assolo in velocità di Mazzola e Jair, i ricami mancini di Corso, ed una difesa così riconoscibile da diventare leggendaria e proverbiale: Sarti, Burgnich, Facchetti...La Grande Inter.
File:Formazione dell'Inter 1964-1965.jpg - Wikipedia
La Grande Inter (1964/65)

Il Real Madrid, che pure vinse la sua sesta Coppa dei Campioni nel 1966, eliminando l'Inter in semifinale, cominciava a declinare dopo il dominio della seconda metà degli anni '50. Sorgeva invece la stella del Manchester United di Busby e di Bobby Charlton, entrambi miracolosamente sopravvissuti al disastro di Monaco di Baviera, paragonabile alla tragedia di Superga, nel quale avevano perso la vita molti giovani talenti di sicuro avvenire, su tutti Duncan Edwards. La squadra inglese vinse il campionato nazionale nel 1965, poi di nuovo nel 1967 fino al successo più eclatante, quello nella Coppa dei Campioni del 1968: in avanti il trio delle meraviglie, la mezzala scozzese dal gol facilissimo, Denis Law, il centravanti inglese più tecnico e manovriero che si ricordi, Bobby Charlton, e l'ala destra nordirlandese, George Best, talento purissimo, estro senza freni, vita dissipata e gol magnifici. 
File:The United Trinity, George Best, Denis Law and Bobby Charlton ...
Statue di Best, Law e Bobby Charlton

Forse il giocatore più rappresentativo di questa magica decade fu però il portoghese, di origini mozambicane, Eusebio, poderoso centravanti dalla tecnica brasiliana, dalla progressione micidiale e dal tiro incendiario. Vinse, con il suo Benfica, la seconda Coppa dei Campioni consecutiva del 1962 e trascinò il Portogallo al terzo posto ai mondali del 1966 in Inghilterra, laureandosi capocannoniere con 9 gol. 
File:Eusebio (1963).jpg - Wikipedia
Eusebio (Portogallo)


Insieme a lui, il portiere sovietico Lev Jashin, campione d'Europa nel 1960, sempre vestito di nero, dal fisico imponente e i riflessi da gatto, per molti il miglior portiere di sempre. Ancora oggi si favoleggia sulle presunte doti ipnotiche esercitate sugli avversari. Sandro Mazzola ha più volte confermato questa leggenda, ricordando un rigore che Jashin gli parò in nazionale.
File:Lev Yashin 1960b.jpg - Wikipedia
Lev Jashin (URSS)


Nel 1960, furono organizzati i primi Campionati Europei per nazionali: vinse l'URSS. Nel 1964 toccò alla Spagna di Suarez e Gento. Nel 1968, 30 anni dopo il successo ai mondiali di Francia, toccò all'Italia allenata da Ferruccio Valcareggi. Che ebbe ragione in finale della Jugoslavia, dopo aver vinto il sorteggio con la monetina nella semifinale con l'URSS. Sorteggio vinto dal capitano Facchetti. La prima finale con la Jugoslavia finì in pareggio. Non essendo previsti i supplementari né, tanto meno, i rigori. Si rigiocò: vinse l'Italia con gol di Gigi Riva ed Anastasi. Per la prima volta, una massa di tifosi si riversò per le strade a festeggiare, sventolando bandiere tricolori. C'erano già state le occupazioni delle Università e le prime grandi manifestazioni studentesche. Di lì a poco, si sarebbero diffusi disordine e tumulti di piazza, contestazione generalizzata. Fu l'ultimo sprazzo di serenità prima che cominciasse uno dei periodi più bui e controversi della storia italiana.
File:Euro 1968 - Italia campione d'Europa.jpg - Wikipedia
Italia campione d'Europa nel 1968

Negli anni '60, ma fu questione specialmente, sebbene non solo, italiana, infuriò una serrata disputa sulla tattica. Fu allora che si cominciò a parlare di calcio all'italiana, talora, con sprezzatura, definito catenaccio, per contrapporlo al calcio più offensivo praticato dalle squadre del Nord Europa, Inghilterra in testa, o, in modo più tecnico e meno fisico, dal Brasile. Brera capeggiava i cosiddetti italianisti, convinti, sulla base di valutazioni culturali e biologiche spinte, che gli italiani fossero più acconci alla difesa e contropiede, che all'attacco con dominio del gioco. Troppi secoli di dominazioni subite e doti atletiche ritenute inferiori a quelle di popoli meglio nutriti e sviluppati. Era questa la tesi, molto politicamente scorretta. Dall'altra parte, la cosiddetta scuola napoletana, di Ghirelli e Palumbo, che inneggiava ad un calcio più offensivo e spensierato, eleggendone a simbolo Rivera ed il suo gioco compassato ma elegantissimo. La questione, sotto altre forme, e con l'ausilio di penne meno felici, dura ancora oggi.

mercoledì 5 dicembre 2018

Juve-Inter: affresco del derby d'Italia

Quando Gianni Brera coniò, per la sfida tra Inter e Juve, o Juve e Inter, la locuzione fortunatissima derby d'Italia, correva l'anno 1967. Aldo Moro era, per la terza volta, Presidente del Consiglio dei Ministri, guidando un governo di centro-sinistra, Giuseppe Saragat, socialdemocratico, era Presidente della Repubblica. L'Italia stava smettendo gli abiti del paese rurale, la dorsale appenninica cominciava a spopolarsi, Milano, Torino e Genova continuavano ad accogliere emigrati dal meridione e dalle isole. Mutavano i costumi. Ma, ancora non c'era stato lo sconquasso che avrebbe portato il 1968. Dentro gli stadi, non esisteva il tifo organizzato, c'erano pochissimi posti a sedere, ci si andava con giacca e cravatta. E cappello, molte volte. Le immagini di repertorio, tutte rigorosamente in bianco e nero, le canzoni, le acconciature, i volti, tutto, a rivederlo, rimanda ad un mondo che oggi appare lontanissimo, sfumato. Olio su tela. Ecco, sono passati 51 anni, e sembrano, tale è l'effetto straniante provocato dal confronto con i nostri giorni, molti di più. E il derby d'Italia, prima della trovata breriana, era già tale da molti anni. Nel tempo, la rivalità tra Inter e Juve è cresciuta o diminuita, secondo i casi e le occasioni e gli interpreti. Venerdì 7 dicembre, l'ennesimo capitolo di questo grande libro popolare italiano.

domenica 23 settembre 2012

Ennesima sconfitta dell'Inter a San Siro. Vince il Siena per 2-0. Stramaccioni va esonerato.

Perde anche dal Siena l'Inter sconclusionata di Stramaccioni. Una cosa voglio dirla subito: Alvaro Pereira è davvero scarso. Se la gioca, quanto ad inadeguatezza, con Cambiasso, lento come il tempo nei pomeriggi d'estate, Coutinho, che inciampa sulle primule, cito Brera, e Ranocchia, macchinoso oltre l'inverosimile. Stramaccioni va esonerato. Destino che sarebbe toccato a qualunque altro allenatore meno fortunato di lui. E va esonerato subito: nonostante gli sproloqui al riguardo di Sacchi e compagnia cantante, non possiede alcuna idea del gioco. Sei punti in quattro partite, due sconfitte su due al Meazza. Bilancio imbarazzante.