C'era una volta Armando Picchi: colonna della Grande Inter. Manca da mezzo secolo
Era nato il 20 giugno del 1935, a Livorno, Armando Picchi. Un brevilineo di costituzione robusta, che aveva giocato per una vita da terzino destro, senza brillare. Tenace nei contrasti, attento nella marcatura. Fino a venticinque anni. Dopo le esperienze con la squadra della sua città e la stagione (1959/60) alla Spal, Picchi approdò all'Inter, che era appena stata affidata alle cure tecniche di Helenio Herrera: allenatore di nazionalità argentina ma randagio e giramondo, ossessionato dal gioco del calcio, colto, spiritoso, istrionico e motivatore sommo. Uno che avrebbe rivoluzionato il calcio italiano e internazionale, conferendo al ruolo dell'allenatore un fascino e una centralità prima mai sperimentate. Chi ricorda i nomi degli allenatori del Real Madrid che aveva appena finito di vincere 5 Coppe dei Campioni consecutive? Ecco, intanto Herrera, con il Barcellona di Kubala e Suarez, quel Real l'aveva battuto due volte per il titolo di campione di Spagna. Ed era stato capace, all'inizio degli anni '50, di vincere due scudetti anche con l'Atletico Madrid. Angelo Moratti l'aveva scelto perché ne aveva riconosciuto le stimmate del vincente. Herrerà, però, del calcio italiano sapeva poco. Al debutto, si era presentato come un offensivista - perché il Barcellona ha sempre avuto una vocazione di quel tipo anche prima di Cruijff - e il suo obiettivo dichiarato era quello di segnare più di 100 gol in campionato: insomma ai ritmi che erano stati soltanto del Grande Torino. Il campo, dove le squadre italiane, pur non tutte, già praticavano un solido calcio di rimessa, suggerì ad Herrera di cambiare spartito. Picchi fu spostato nel ruolo di libero: Herrera ne aveva riconosciuto il carisma, l'innata sapienza calcistica, la facilità di lettura delle azioni, la dote di preveggenza delle traiettorie. Sarebbe divenuto il perno della Grande Inter, specialmente dopo l'arrivo, nel 1961, di Suarez. Picchi, promosso capitano, comandava la difesa e guidava moralmente tutti, Suarez, dirigeva il gioco. E non era catenaccio, perché in quella squadra Facchetti attaccava come un'ala, a centrocampo Corso regalava olio su tela, passeggiando, di Suarez s'è detto, e c'erano gli scatti di Jair e le serpentine ardite di Sandro Mazzola. Attesa e contropiede, a volte, sì. Ma anche attacchi corali contro difese schierate. E, sempre, una solidità difensiva degna de La Rochelle. Quell'Inter, capitanata da Picchi, che telecomandava i compagni della difesa, avrebbe potuto difendere un 1-0 per ore. Arrivarono successi in serie: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Fino al tramonto, improvviso e bruciante del 1967: in pochi giorni una Coppa dei Campioni persa contro il Celtic Glasgow (ma mancava Suarez) e uno scudetto finito alla Juve, per la papera di Sarti contro il Mantova. Herrera e Picchi non si prendevano più. Pare che il Mago fosse geloso della leadership del capitano e del rispetto che i compagni gli portavano. Pare. Picchi andò al Varese. Un anno dopo andò via anche Herrera. E lo stesso Angelo Moratti passò la mano in favore di Fraizzoli. Picchi si preparava ad una grande carriera da allenatore. Prima proprio a Varese, poi nella sua Livorno. Finché lo chiamò Boniperti alla Juve. Prima, però, giocando nella nazionale, durante Italia-Bulgaria del 26 aprile 1968, una caduta rovinosa, la frattura del bacino, una botta tremenda, le cure forse inadeguate. E un dolore che non sarebbe passato più. Fino a diventare un cancro. Il 26 maggio del 1971, mezzo secolo fa, Picchi moriva per un singolarissimo tumore alla costola, dopo aver lasciato - sopraffatto da dolori lancinanti - la panchina della Juve a campionato in corso, dopo che l'Inter aveva appena conquistato il suo undicesimo scudetto. Armando Picchi non aveva ancora compiuto 36 anni. E sono cinquant'anni oggi. Lo stadio del Livorno porta il suo nome.
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