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martedì 28 aprile 2020

E fu così che tornammo allo Statuto

Quando Firenze divenne, nel 1865, capitale d'Italia, dopo Torino e prima di Roma, sotto l'Arno fioriva la cultura. La corte Savoia attraeva scrittori e artisti, non perché si desse pena di tardo mecenatismo, ma poiché una capitale è sempre una capitale. E Firenze tornava centrale e nevralgica - sarebbe durato poco - come non le succedeva da tre secoli. Nel 1866, appunto a Firenze, cominciò a stamparsi una raffinata rivista di lettere, scienze ed arte, Nuova Antologia. Avrebbe avuto lungo corso e vasta fortuna. Ospitando firme illustri, anche di politici. Trent'anni dopo, quando Roma era già capitale da un quarto di secolo, vi apparve, il primo gennaio 1897, un articolo del deputato Sidney Sonnino, subito diventato celebre, oggi si direbbe virale, Torniamo allo Statuto. Articolo di critica al parlamentarismo e alle lungaggini di questo, alle tensioni sociali che un governo troppo ostaggio dei dibattiti e delle dispute parlamentari, non sapeva governare. Si criticava il socialismo, nemico della pace sociale, e il clericalismo, nemico del progresso. E si chiedeva di tornare allo Statuto Albertino, che voleva il Re, e solo il Re, il detentore del Potere Esecutivo. Solo il re avrebbe potuto riordinare il disordine. Bisognava, secondo Sonnino, tornare allo Statuto, quello che Carlo Alberto aveva concesso, si badi bene, concesso, con "lealtà di Re ed affetto di Padre"! Ecco, dopo 123 anni, mi pare che, a quello Statuto, ci siamo tornati. Mi pare. Purtroppo. Solo mi domando: chi è il Re?

Lo scudetto dell'Inter di Bersellini, 40 anni fa

L'ultimo campionato vietato agli stranieri. Finì nel 1980 la chiusura delle frontiere calcistiche, decisa dopo la sconfitta ai mondiali del 1966 contro la Corea del Nord. Quelli, tra gli stranieri, che in serie A già c'erano, nel 1966, però rimasero. Fu all'inzio degli anni '70, pertanto, che il campionato italiano divenne del tutto autoctono. E tale rimase fino, si diceva, al 1980. L'anno del dodicesimo scudetto dell'Inter, allenata da Eugenio Bersellini e presieduta da Ivanoe Fraizzoli. L'Inter fece campionato di testa, vinse i due derby contro il Milan, che un anno prima aveva conquistato lo scudetto della stella e salutato Rivera al passo d'addio, ed inflisse un memorabile 4-0 alla Juve di Trapattoni, con tripletta di Altobelli e sigillo di Muraro. Che squadra era l'Inter 1979/80? In porta schierava il silenzioso Bordon, reattivo, esplosivo, fortissimo tra i pali, chiuso in nazionale da Zoff. Difesa con terzini/centrocampisti come Beppe Baresi e Oriali, ma a destra giocava spesso, in marcatura, anche Canuti, Mozzini stopper tosto e Graziano Bini, giovane capitano cresciuto nel vivaio, libero mancino, alto ed elegante, anche lui chiuso in nazionale da Scirea e dall'emergente Franco Baresi, fratello di Beppe. A centrocampo c'era il corridore, incontrista, Marini, il mediano di spinta dalla falcata poderosa, Pasinato, Mimmo Caso regista arretrato dall'ala da Bersellini e, sulla trequarti, a bivaccare in attesa del colpo di genio, frequente e abbagliante, il meraviglioso Evaristo Beccalossi, maestro del dribbling e della pausa, testa alta, piedi fatati, mancino. Come mancino, pare e dico pare perché calciava i rigori di destro e le punizioni di sinistro e, insomma, vai a capire con quella tecnica quale fosse il suo piede preferito, era il centravanti "Spillo" Altobelli da Sonnino. Uno che segnava in tutti i modi, con entrambi i piedi, di testa, gran fondamentale, in contropiede. E dribblava, scalava sulla fascia, crossava, veniva incontro ai centrocampisti. Un asso. All'ala sinistra, terzo mancino su tre giocatori d'attacco, il velocissimo Carletto Muraro, tiro secco e stacco imperioso. L'Inter conquistò il campionato con due giornate di anticipo. E chiuse con 3 punti di vantaggio, ogni vittoria ne valeva due, sulla Juve. Stava cambiando tutto. Proprio quell'anno ci fu il calcio-scommesse, giocatori arrestati in campo. Milan retrocesso per illecito sportivo.  Verranno squalificati Albertosi e Paolo Rossi, Giordano e Manfredonia. E, alla ripresa, i primi stranieri, uno per squadra, si riaffacceranno in serie A, che stava per diventare, lo sarebbe rimasta per oltre un decennio, il più affascinante, competitivo e spettacolare campionato di calcio del mondo.

lunedì 27 aprile 2020

I 60 anni di Walter Zenga. Il portiere immaginifico

Gli anni '80 sono stati gli ultimi davvero spensierati. Peraltro, seguivano i lugubri '70, quelli degli attentati e degli scontri di piazza, del terrorismo, della strategia della tensione, della crisi petrolifera, dello scontro ideologico permanente. Poi, il reflusso. La pacificazione sociale, certo, anche l'edonismo, che si sarebbe detto reaganiano, nuovi anni '60, più patinati, più glamour, meno sinceri anche. E più superficiali, di sicuro. Anni giovani, comunque. Di diffuso benessere, l'Italia entrava tra le cinque maggiori potenze economiche del mondo. Milano, la città di Craxi presidente del Consiglio socialista, il primo, tra il 1983 e il 1987, era il traino del Paese, ché nazione non si poteva più dire da tempo. La città della moda e della Borsa. E dell'Inter, poiché il Milan, prima dell'avvento di Berlusconi, s'era fatto due anni di purgatorio in serie B. Zenga divenne titolare della porta nerazzurra a 23 anni, nel 1983. E di quella Milano da bere divenne il simbolo audace e scapigliato. Incarnava, più di chiunque altro, sulla sua moto e tra i pali, la gioventù sbarazzina e fiduciosa dell'epoca. E si credeva che non potesse invecchiare. E invece, domani, Walter Zenga compirà 60 anni! Volava Zenga, il suo colpi di reni, che gli consentiva parate prodigiose, mai più riviste, che indusse Brera a dirlo Deltaplano, fu il gesto tecnico rappresentativo di una decade calcistica irripetibile. Quando la serie A era il centro del mondo del pallone. Bandiera nerazzurra e portiere della nazionale di Vicini. Lo scudetto dei record del 1989, le due Coppe Uefa del 1991 e del 1994, quando fu costretto a un doloroso, precoce, ingiusto congedo. La beffa ad Italia '90, con primato d'imbattibilità e, no, non sbagliò sul gol di Caniggia. Il tempo è passato. Anche per lui. Per noi tifosi, che allora eravamo bambini o ragazzi, Zenga avrà sempre vent'anni. Inarcato all'indietro a respingere un pallone che altri nemmeno avrebbero visto. Il più forte portiere del mondo di allora. Tra i massimi di sempre. 
File:Walter Zenga - 1987 - FC Inter.jpg - Wikipedia
Walter Zenga

Tour de France 1990: il tris di LeMond, l'illusione di Chiappucci. L'imboscata di Saint-Etienne

Il Tour de France 1990 fu l'ultima gara a tappe corsa secondo i canoni del ciclismo antico. Accadde davvero di tutto. Molti pensavano, i francesi lo speravano, che sarebbe andata in scena la rivincita di Fignon su LeMond, dopo la risicata, emozionante vittoria del californiano nella cronometro di Parigi del 1989. Fignon invece fu costretto al ritiro, come gli era già successo al Giro, dominato da un magnifico Bugno: maglia rosa dalla prima all'ultima tappa. Come Girardengo, Binda e Merckx prima di lui. Come nessuno, dopo di lui. Ma, torniamo al Tour. Il francese Marie vince il cronoprologo. Il giorno dopo, avviene l'imprevisto. La "fuga bidone", che porta il canadese Bauer in maglia gialla, con Maasen vincitore di giornata. Tra i fuggitivi, che infliggono al gruppo più di dieci minuti di distacco, anche Claudio Chiappucci. Ventisettenne scalatore, cresciuto nella Carrera, a lungo gregario di Visentini e di Roche. Appena quattordicesimo al Giro dominato da Bugno. I condottieri del plotone capiranno presto di aver usato troppa indulgenza verso quegli attaccanti. Particolarmente coriacea si dimostrerà la resistenza di Chiappucci. Che presto smette i panni dell'imbucato alla grande festa del ciclismo mondiale. Il suo vantaggio si erode ma non sfuma. Anzi, sulle Alpi, dopo il trionfo di Bugno su LeMond all'Alpe d'Huez, Chiappucci tiene. E nella cronometro che arriva a  Villard-de-Lans, vinta da Breukink, si veste di giallo. Il suo vantaggio su LeMond e Breukink è ancora rassicurante. Senonché, in una tappa intermedia, la classica tappa vallonata del Tour, da cui nessun suiver si attende sconquassi, il genio strategico di LeMond ribalta i giochi. Spedisce all'attacco il compagno di squadra Pensec, un altro dei miracolati del secondo giorno di corsa. Chiappucci abbocca, temendo di perdere la maglia. Ma, stremato, non sa replicare al contrattacco di LeMond e Breukink, perdendo, sul traguardo di Saint-Etienne, oltre quattro minuti e mezzo. Fatali. Perché nella cronometro della penultima tappa, vinta ancora da Breukink, LeMond gli porterà via, secondo pronostico, il primato. LeMond vincerà il Tour, con 2'16" su Chiappucci e 2'29" su Breukink. Quarto Delgado, decimo il suo luogotenente Indurain, che, allora nessuno se l'aspetta, farà suoi i prossimi cinque Tour. Sembra, infatti, il meno dotato, e forse lo è, della generazione del 1964, anno di nascita anche di Breukink, Alcala e Bugno! Quinto è lo spagnolo Lejarreta, un maratoneta delle due ruote, che, quasi ogni anno correva, nell'ordine d'allora, Vuelta, Giro e Tour (quindici volte tra i primi dieci della generale!). Settimo è Bugno, vincitore di giornata anche a Bordeaux, che ha corso il Tour dopo il trionfo al Giro e che, a parere di scrive, era il più forte in gara. Ma, non lo sapeva. Come lo sarebbe stato l'anno dopo, nel 1991, pur chiudendo secondo dietro Indurain. Ma, questa è un'altra storia.
Tour de France 1990 - Wikipedia
Tour de France 1990

Lotito vorrebbe una partita secca Juve-Lazio

Insomma, una finale, una partita secca tra Juve e Lazio. Questo vorrebbe Lotito per decidere e assegnare lo scudetto 2019/20, nel mezzo del transito dalla Fase 1 alla Fase 2 dell'era pandemica che stiamo vivendo, con il timore, fondato, di vedere la Fase 2 bis, la Fase 2 ter...la Fase 2 terdecies! Senza girarci troppo intorno, quella di Lotito mi pare una proposta irricevibile. O si completa il calendario del campionato e si giocano tutte, ma tutte, le partite restanti. Oppure lo scudetto non si assegna. Norme e logica non permettono altre soluzioni. Lotito ha anche fatto riferimento al vantaggio di Juve e Lazio su Inter e Atalanta, dimenticando che Inter e Atalanta hanno persino giocato una partita in meno! Insomma, probabilmente il campo emetterebbe comunque questo verdetto: scudetto alla Juve o alla Lazio. E va bene. Ma,  ciò dovrà e potrà avvenire solo giocando tutte le partite previste. Senza scorciatoie.

venerdì 24 aprile 2020

I tre fratelli Pelissier: eroi del ciclismo francese

Le famiglie nello sport meritano e sempre suscitano le attenzioni della stampa. Il calcio è pieno di esempi parentali e qualche volta dinastici, di padri e di figli, Valentino e Sandro Mazzola, Cesare e Paolo Maldini, Juan Roman Veron e Juan Sebastian Veron, di fratelli, molti olandesi, i gemelli Renè e Willy Van de Kerkhof, Ronald ed Erwin Koeman, i gemelli Ronald e Frank De Boer, Beppe e Franco Baresi, Socrates e Raì (i brasiliani giocano con cognomi e soprannomi). Tra le due guerre, nel novecento, di figli se ne avevano più di oggi, i fratelli venivano ricordati con numero romano di fianco al cognome, i tre fratelli Cevenini, i cinque fratelli Sentimenti. Ecco, proprio in quell'epoca, tra le due guerre e un poco prima, nel ciclismo francese s'avviò l'epopea leggendaria e romanzata di tre fratelli: Henri Pelissier, classe 1889, il maggiore e il più forte e il più inquieto, Francis Pelissier, classe 1894 e Charles Pelissier, classe 1904. 
Henri Pelissier
Il maggiore dei Pelissier è il più vincente dei tre. Vince il Tour de France del 1923, davanti ad Ottavio Bottecchia, ma si aggiudica anche una Sanremo, due Roubaix e tre Giri di Lombardia. Un asso negli anni dieci. Evita la Grande Guerra perché riformato alla visita di leva pour faiblesse de constitution, per debolezza di costituzione. Lui! Un corridore ciclista dell'epoca eroica, uno che affronta tappe di centinaia di chilometri, che partono alle tre di notte e si concludono dopo dodici, tredici, quattordici ore. Henri Pelissier ha un'indole ribelle e una personalità preponderante. Tiene testa al dispotico e geniale Henri Desgrange, patron del Tour, cui rimprovera la crudeltà dei percorsi e la durezza ostile dei regolamenti. Al Tour del 1924, che vincerà Bottecchia, Pelissier va in collera per una perquisizione. Gli trovano addosso due, tre maglie. Perché la notte fa freddo - si parte di notte - e lui ne mette qualcuna di più. E non vede perché non si potrebbe. La sua rabbia esplode, fino al ritiro. In quest'occasione, racconta la vita grama dei "forzati delle ruote" e confessa un ricorso al doping, che all'epoca è ammesso, nel senso che non è vietato e nessuno se ne preoccupa: "Noi soffriamo dalla partenza all'arrivo. Volete vedere come corriamo?...c'è la cocaina per gli occhi...c'è il cloroformio per le gengive...noi corriamo sulla dinamite". Racconta il Tour come una chemin de croix, una via crucis, con una stazione in più, visto che le tappe del Tour di allora sono quindici. La sua vita, che racconta fino ad un certo punto anche in un romanzo a puntate, terminerà tragicamente, ucciso da un colpo di rivoltella dell'amante una decina di anni dopo.
Henri Pélissier - Wikipedia
Henri Pelissier (FRA)
Francis Pelissier
Fu il meno dotato dei tre fratelli, gregario di lusso di Henri. Campione nazionale nel 1921, quando si annesse anche una Parigi-Tours, vinse una tappa al Tour e si piazzò in varie classiche. Fu anche il più longevo dei tre e insegnò ciclismo agli svizzeri Kubler e Koblet e al sommo Anquetil.
Charles Pelissier
Il più giovane della dinastia. Vinse sedici tappe al Tour de France, otto delle quali nell'edizione del 1930! A lungo, questo delle otto vittorie in un solo Tour, fu un primato solitario. Poi, eguagliato negli anni '70 da Merckx, tanto per cambiare, e Maertens.

giovedì 23 aprile 2020

Tour de France 1989: LeMond e Fignon. Il romanzo di due campioni leggendari e di una rivalità unica

Il Tour più bello e avvincente, cui mi sia capitato di assistere, resta quello del 1989. Al via, il grande favorito era il beniamino di casa Laurent Fignon, il professore, così detto per via di occhialini dalla montatura dorata che gli conferivano un'aria molto seria. Fignon era tornato competitivo nelle gare tappe proprio al Giro d'Italia appena vinto su Flavio Giupponi.
Laurent Fignon
Talento precoce, aveva già conquistato, nel 1983 e nel 1984 due Tour de France consecutivi e sembrava destinato a stabilire una lunga tirannia nel mondo delle due ruote: nel 1984 aveva appena 24 anni, essendo nato a Parigi il 12 agosto del 1960. Ecco, quell'anno, il 1984, quello delle Olimpiadi di Los Angeles, Fignon aveva sfiorato anche il Giro, perdendo la maglia rosa nella cronometro finale che giungeva all'Arena di Verona: decisivo l'apporto tecnologico fornito a Moser dalle ruote lenticolari. Al Tour, però, aveva dato dieci minuti a sua maestà Bernard Hinault e undici al campione del mondo in carica Greg LeMond. Invece, da quel momento cominciò un periodo di buio agonistico per Fignon, dovuto anche a ripetuti infortuni. Hinault avrebbe vinto il Tour del 1985, il suo quinto e rimasto l'ultimo per i francesi!, davanti a LeMond, con Fignon assente. Lemond avrebbe vinto, primo americano della storia, il Tour del 1986, Hinault secondo e pronto al ritiro a soli 32 anni. Il professore francese avrebbe dovuto attendere, si diceva, il Giro del 1989 per tornare a fare classifica in un grande giro. Nel frattempo, si era annesso, noblesse oblige, due Milano-Sanremo consecutive ('88 e '89).
File:Laurent Fignon, Système U (cropped).jpg - Wikipedia
Laurent Fignon (FRA)
Greg LeMond
Greg LeMond era un predestinato. Ciclista dove, negli Usa, il ciclismo era sport di puro diletto, aveva messo a profitto il fatidico incontro con un italoamericano di origini marchigiane, Fred Mengoni. Suo ispiratore e mentore. LeMond, nato in California il 26 giugno 1961, era stato campione del mondo nel 1983, dopo il secondo posto inflittogli da Saronni a Goodwood nel 1982. Ma, era anche magnifico corridore da gare a tappe. In carriera, faceva il Giro per preparare il Tour. Eppure arrivò con facilità terzo e quarto nella corsa della Gazzetta ('85 e 86). S'è detto del Tour che vinse su Hinault nel 1986. Poi, il fato volle esigere da lui un prezzo elevatissimo dalla gloria ottenuta. Un incidente, un banale incidente di caccia, rimase ferito e forzatamente lontano dalle competizioni per due lunghi anni, essendosi temuto per la sua carriera oltre che per la sua vita. Tornava alle corse proprio nel 1989. Quando comincia la nostra storia.
Greg LeMond - Wikipedia
Greg Lemond (USA)
Tour de France 1989
Dopo anni contrappuntati da assenze dolorose, al via della Grande Boucle, ci sono tutti i migliori. Fignon, appunto, fresco vincitore del Giro, LeMond, risorto, Pedro Delgado, vincitore, tra le polemiche, del Tour del 1988, la corazzata della PDM, che schiera, tutti assieme, Theunisse, Rooks, Alcala e Kelly: finiranno tutti e quattro tra i primi dieci della classifica generale, pur mancando il podio. La corsa comincia con un coup de theatre: lo spagnolo Delgado, nel cronoprologo del Lussemburgo, si presenta al via con due minuti e mezzo di ritardo. Perché? Si tireranno in ballo i sospetti di doping che avevano adombrato la sua vittoria dell'anno prima. Delgado dovrà correre in rimonta tutto il Tour e chiuderà terzo, nonostante la superiorità manifesta in salita. La prima maglia gialla è dell'olandese Breuking, classe 1964, uno che aveva più reputazione nelle corse a tappe, allora, dei coetanei Bugno e Indurain, luogotenente di Delgado. Fignon prende la maglia gialla alla quinta tappa. LeMond gliela porta via alla decima, dopo una cronometro interminabile, 73 km, che giunge a Futuroscope. Fignon la riprende a Superbagneres, sui Pirenei, e la cede di nuovo a LeMond, a Gap, all'esito della quarta cronometro di quel Tour! Fignon va meglio in salita. E si veste ancora di giallo dopo l'Alpe d'Huez, domata dall'olandese Theunisse. Fino alla cronometro, la quinta, che giunge a Parigi da Versailles, il 23 luglio 1989. La Francia è tutta con Fignon. Con l'eccezione degli inconsapevoli organizzatori, che hanno infarcito il Tour di 190,3 km contro il tempo, cronosquadre compresa! Fignon lotta, ma LeMond vola. E vince il Tour de France 1989 con il vantaggio più esiguo e beffardo della storia del ciclismo: 8"! Otto, tremendi secondi, che porranno fine alla carriera di Fignon ad alti livelli. La seconda beffa per Fignon, dopo quella di Verona 1984. Troppo. LeMond vincerà anche il Tour, il suo terzo, del 1990.