Blog di critica, storia e statistica sportiva fondato l'11 maggio 2009: calcio, ciclismo, atletica leggera, tennis ...
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mercoledì 13 dicembre 2023
Storia del calcio: più forti ieri o più forti oggi?
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lunedì 19 aprile 2021
La Super League è una farsa antistorica
Ignorano le origini del gioco del calcio. E molte altre cose, verrebbe da pensare. Ed è un grande errore, perché, come ammoniva Vico, la natura di una cosa sta nello suo cominciamento. E il calcio, che pochi eletti - poi, da chi? - vorrebbero rinchiudere nella torre d'avorio della Super League, nacque umile, popolare e trasandato. Non pratica di nobiluomini annoiati, ma passatempo di operai e scaricatori di porto. Tanto da giocarsi con i piedi, gli arti meno nobili. Quelli che, ancora negli anni '50 del secolo scorso, non potevano nominarsi negli spettacoli televisivi, senza suscitare le indignate proteste della gente dabbene e senza incorrere nelle reprimende dell'occhiuta censura. Piaccia o meno, il calcio nacque povero. E la sua immediata, straripante diffusione fu dovuta proprio a questa culla di povertà. E, da subito, fu uno sport per tutti, alla portata di tutti. Non come il rugby, che esigeva le spalle larghe e le costituzioni massicce donate dai cinque pasti giornalieri e dalla vita comoda e beata dei college esclusivi. Non come il basket, frutto delle elucubrazioni solitarie di Naismith e divenuto, con il tempo, riserva di caccia di Gargantua e Pantagruel. No, il calcio è nato egalitario. Per gli alti e i bassi, i longilinei e i brevilinei, gli smilzi e i tarchiati. Solo il ciclismo ha la medesima natura schietta e popolare e istintiva del calcio. E veniamo alla notizia di questa improbabile Super League, che sarebbe riservata alle squadre più forti e ricche della Vecchia Europa. Un circolo esclusivo, dove il pallone dovrebbe sostituire whist e acqua e brandy. Non funzionerà. Non alla lunga. Il calcio è nato per tutti. Quest'idea di alcune squadre - e mi spiacerebbe moltissimo che vi si accodasse anche la mia Inter - rintanate nell'hortus conclusus di un torneo medievale ha il respiro corto. Perché esclude la possibilità che il piccolo sfidi il grande, che il debole sfidi il forte. Perché dimentica il campanile, che del calcio è simbolo e vera distinzione. Perché le partite di calcio attirano spettatori sempre, dappertutto, dalla terza categoria sino al campionato del mondo. E dev'esserci possibilità di scendere e salire, come sempre nella vita. Si è detto, ma in NBA funziona così. Chi se ne frega? Ma, davvero dovrebbe farci da modello lo sport americano? Vi rispondo con le parole di John McEnroe, tra i pochi americani che mai mi siano stati simpatici: You cannot be serious. Non mi piace lo sport americano, non mi piacciono i cappellini con visiera e, a questo punto, dovendo scegliere, nemmeno i popcorn. E, già che ci siamo, ho sempre trovato anche i film Western insopportabili. C'è lo zampino di Jp Morgan, che sarebbe il maggior finanziatore della Super League. Incorreggibili questi americani. Mettono la parola super dappertutto. Parola latina, peraltro, ma loro non lo sanno. Hanno scambiato il calcio, mistero senza fine bello, per una saga degli Avengers. Ma, vanno capiti. Per loro tutto è business. Parola che pronunciano diversamente da come è scritta. Resto convinto che i sovrani spagnoli sbagliarono a finanziare la spedizione di Cristoforo Colombo.
mercoledì 25 novembre 2020
Maradona addio! Il più grande giocatore della storia del calcio se n'è andato a 60 anni.
Stupore e incredulità. Lo stesso stupore e la stessa incredulità che provavo, tanti anni fa, di fronte alle prodezze sempre nuove, sempre abbaglianti, sempre prometeiche del più straordinario calciatore mai nato. Stupore e incredulità. La notizia mi raggiunge via radio, mentre sono in automobile. Dall'Argentina la notizia della morte di Diego Armando Maradona. Che stesse male e da tempo era noto; che avesse di recente subìto un delicato intervento chirurgico anche; che fosse scampato, lungo la scoscesa via dei mille eccessi seguiti allo splendore incandescente del campo, a molti agguati della vecchia con la falce pure. Tutto questo era noto, ma che Maradona potesse morire, ecco, questo era impossibile da pensare. Perché gli eroi non muoiono. E non dovrebbero morire. E Maradona era stato un eroe. Un eroe del Sud del Mondo, cresciuto dentro una delle tante ville miseria di Buenos Aires, ed era asceso alla gloria imperitura. Gli scudetti contro la storia a Napoli, il Mondiale 1986 contro le leggi della fisica, con l'Argentina. Con quel sinistro fabuloso e incantatore, che con la palla amoreggiava senza bisticci, ricambiato, tramutando in successi inaspettati tutti i sogni più avventurosi. Maradona aveva conservato lo sguardo timido del ragazzetto che, a dieci anni, intervistato dalla televisione argentina, dopo aver regalato palleggi e giocate da prestigiatore, diceva di voler giocare un mondiale con l'Argentina e di volerlo vincere: due sogni aveva, quei due. Li avrebbe realizzati entrambi. Menotti non lo convocò ai mondiali di casa del 1978, lasciando a Kempes e Passarella e Ardiles il compito di portare acqua al mulino dei colonnelli. Meglio così. Maradona era già un fenomeno, che solo di lontano poteva rassomigliare a Sivori, fortissimo ma senza un decimo della forza dirompente e del carisma di Diego Armando, o a Rivelino, brasiliano, mancino va da sé, idolo d'infanzia del medesimo Maradona. I due sommati e moltiplicati per dieci non potevano valere un decimo di Maradona. E sia detto con rispetto per quei campioni veri. Il problema è che Maradona era di un'altra pasta. Veniva da un altro mondo. Giocava un altro calcio. Nessuno ha saputo prendere per mano squadre, oneste e modeste, e portarle al trionfo come ha fatto lui. Nessuno ha saputo elevare il livello di gioco dei compagni come ha fatto lui. Nessuno, in nessuno sport. L'identificazione simbiotica e romanzesca che visse con Napoli, trascinata due volte sul tetto d'Italia fu emblematica e, mi si lasci dire, metacalcistica perché antistorica. Maradona fu il novello Masaniello, cui il popolo, tutto il popolo, però, mai voltò le spalle, continuando a sentirne e subirne e impetrarne fascino e malia anche quando Maradona se ne andò. Via dall'Italia nel marzo del 1991 è come se fosse oggi. Perché gli eroi, Maradona fu un eroe magnifico, possono fermare il tempo e lo fermano. I suoi gol, quella punizione dentro l'area contro la Juve di Tacconi, il gol contro l'Inghilterra a Messico '86, le giravolte e le rabone, e i mille calci che non riuscivano ad atterrarlo - perché Maradona aveva nelle cosce e nel tronco una forza erculea, che se ne infischiava dei suoi 165 cm - quei tiri mai violenti e sempre vincenti, quelle inesorabili carezze al pallone, tutto questo non è passato e non passerà. Non c'è Pelé che tenga, figuriamoci Messi. Maradona è stato, anzi, è, il più grande giocatore di ogni tempo. Perché è oltre il tempo. Maradona è morto e con lui se ne va, rattristata ma fiera, una parte della nostra giovinezza. Eppure Maradona è giovane, perché gli eroi sono giovani e belli. E noi possiamo illuderci di rimanere - e forse davvero restiamo - i ragazzi che eravamo allora, quando, anche tifando per altre squadre, ci dicevamo: hai visto? Hai visto cos'ha fatto Maradona? Sapevamo che sfuggiva anche al novero dei campionissimi e ce n'erano ai tempi, da Rummenigge a Platini a Zico. Epperò Maradona, questo l'ammettevamo tutti, era altro, era oltre, era troppo. Chi era Maradona? Dovreste intervistare i suoi compagni di squadra. Non uno, non uno di loro ha mai avuto parole che non fossero d'inalterabile riconoscenza e d'incessante elogio, nonostante gli allenamenti disertati e i molti privilegi che gli lasciavano. Perché Maradona era il più forte, senza lasciarlo intendere e senza farlo pesare. Assumendo tutte le responsabilità e dividendo tutti gli onori. Solo di qualche onere, l'allenamento appunto, amava fare a meno. Ma, in campo, in campo Maradona era sempre Maradona. Lo sapevano i compagni e lo sapevano gli avversari. Se mai vi venisse in mente, che so?, il confronto con Pelé, ecco, andate a leggere le formazioni, una migliore dell'altra, del Brasile del 1958, del 1962 (Pelé giocò una partita e mezza e fu sostituito, benissimo, da Amarildo) e del 1970, e poi scorrete la formazione dell'Argentina del 1986. Su, non c'è confronto. Pelé grandissimo, Maradona incommensurabile. La rive gauche del calcio. Il rivoluzionario, l'antagonista, il barricadero. Ve le figurate le facce degli inglesi, pieni di birra un'ora prima della chiusura dei pub, quando in cinque minuti Maradona scrisse il più grande dramma scespiriano mai rappresentato: gol di mano e poi il gol del secolo? Che faccia fece la Thatcher di fronte al pernacchio di quello scugnizzo, di quel guascone sudamericano, che Galeano definì il più umano degli dei e Brera ribattezzò divino scorfano? Una sconfitta militare, quella delle Malvinas vendicata con una sequela ritmata di tutte le figure del tango. Maradona non solo giocava meglio di chiunque altro, Maradona era il campione di un romanzo popolare, che ce la faceva. Era Jean Valjeant e Oliver Twist, ma pure, a modo suo, il principe Myskin, che il mondo, anche soltanto per sublimi, sfuggenti attimi lo cambiava sul serio. Il re di una corte dei miracoli, che batteva moneta e concedeva grazie. Mi piace ricordare che quando calciava i rigori, di solito, il portiere restava fermo, immobile, al centro della porta. Percosso e attonito, parafrasando qualcuno. Così siamo noi in questo momento. Perché, no, non ce l'aspettavamo. Che la terra gli sia lieve.
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venerdì 23 ottobre 2020
Gli 80 anni di Pelé (Edson Arantes do Nascimento)
Per spiegare la dimensione planetaria del fenomeno Pelé, Edson Arantes do Nascimento in arte Pelé, nato il 23 ottobre del 1940, mi servirò di un piccolo episodio dei tempi di scuola. Frequentavo, la terza, o la quarta?, elementare e sul sussidiario m'imbattei in una pagina che raccontava, con parecchia enfasi, il millesimo gol di Pelé, segnato in Brasile nel 1969. Un calcio di rigore trasformato con sapienza, l'attesa dei tifosi, la pacifica invasione del campo. Stava già sul sussidiario, Pelé, quello unico delle elementari dei primi anni '80. Era, credo di ricordare, il 1983. Pelé aveva smesso di giocare da sei anni, aveva solo 43 anni e già compariva sui libri di scuola. Già aveva scavalcato il recinto dello sport, per insediarsi nell'immaginario collettivo. In realtà, Pelé era diventato subito leggenda, dai mondiali svedesi del 1958, quando con sei gol, alcuni meravigliosi, contribuì, non ancora diciottenne, alla conquista del primo mondiale per i brasiliani. Quale straordinario giocatore fosse, credo che qualunque appassionato di calcio abbia potuto leggerlo ed anche vederlo nelle immagini di repertorio sgranate dal tempo. Prodigio di coordinazione, forte, veloce, rapido, ambidestro, tecnico, fantasioso. Eccellente in tutti, e dico tutti, i fondamentali del gioco. Se il numero 10 divenne un simbolo del gioco del calcio fu perché era il suo: prima tutti i ragazzi desideravano il 9 del centravanti. Tre mondiali vinti, come mai nessuno prima e dopo di lui. Icona degli anni '60, anche se il vertice del rendimento e della maturità tattica ed agonistica lo raggiunse a Messico 1970, annettendosi il terzo mondiale dentro il contesto di una squadra illogica - 5 numeri 10 assieme, ma il 10, va da sé, sulle spalle - ed irripetibile. Il secondo, quello del 1962 in Cile, il Brasile l'aveva invece conquistato quasi senza di lui, presto infortunato e sostituito da Amarildo. Non lo considero il migliore della storia, Pelé, solo perché poi venne Maradona.
lunedì 25 maggio 2020
Recoba serviva più assist di Pirlo
Questo blog è sempre stato recobiano. Premessa necessaria. Sono sempre stato recobiano. Detto questo, qual era il ruolo Alvaro Recoba? Io ho sempre pensato che fosse una mezzala. La classica mezzala sudamericana, votata all'attacco, inteso come offesa alla squadra avversaria, con poca o nessuna attitudine alla fase difensiva. Insomma, un interno sinistro. Chi abbia visto tutte le sue partite, io le ho viste quasi tutte, anche nel campionato uruguaiano e con la Celeste, sa che Recoba partiva da dietro e veniva a prendersi palla anche nella sua metà campo. Per muovere in progressione o liberare il suo fantastico lancio. Come in un derby contro il Milan: lancio di quaranta metri per Vieri. In Europa, dovette adattarsi a giocare seconda punta, per lo più, faticando spalle alla porta, centrocampista di fascia sinistra, con Cuper!, o attaccante esterno con Zaccheroni. O riserva di lusso, con quasi tutti. Solo Novellino, a Venezia, gli concesse tutta la libertà indispensabile. Però, sappiamo che ci sono tanti però. Incostanza di rendimento, prove opache in mezzo a molte superlative. Ancora oggi, per tanti è stato il titolare del miglior sinistro degli ultimi 40 anni, dopo quello di Maradona, per altri un dissipatore neghittoso di talento, per altri addirittura un estroso sopravvalutato. Perché tanta difformità di vedute? L'equivoco, a mio parere, è nato dal ruolo. Non averlo capito ha sviato molti giudizi.
E allora stabilisco un confronto tra uno dei massimi centrocampisti degli ultimi 20 anni, Andrea Pirlo, e Recoba, restringendo il campo d'indagine alla serie A. Pirlo, nato trequartista, divenne regista arretrato, e il suo merito principale, fra i molti, era riconosciuto nella capacità di servire assist ai compagni. Ebbene, dopo ricerca, voglio offrire un dato per riflettere. Alvaro Recoba, Inter |
Andrea Pirlo, Juve |
Recoba: 207 partite in serie A, 62 gol, 52 assist
Insomma, Recoba, sempre giudicato solo per i gol, che non furono pochi, ha servito 0,25 assist a partita. Pirlo, 0,17 assist a partita. E, chiarisco, non giocavano nello stesso ruolo. Pirlo era meno offensivo di Recoba e molto più regista. Ma, Recoba mandava a rete i compagni come e più di Pirlo. Non trovò il suo Mazzone o il suo Ancelotti. Un allenatore che gli desse una maglia da titolare a centrocampo, per valorizzarne le doti tecniche e di visione che possedeva in modo eminente. I numeri non dicono tutta la verità. Ma, non mentono.
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