Ci fu un tempo in cui la Serie A era il centro del mondo calcistico: gli anni '80. E in quel decennio, forse effimero ma prospero, spensierato e gaudente, ci fu una stagione in cui tutti i più forti giocatori del mondo stavano in Italia: 1984/85. Con pochissime eccezioni, che dirò più avanti. L'anno prima, la Juve di Trapattoni aveva conquistato il 21° scudetto, associandovi anche la Coppa delle Coppe, trascinata da Platini. Il 10 francese aveva dominato l'Europeo di casa del 1984, segnandovi nove gol! Tuttora è il capocannoniere di sempre della manifestazione continentale, assieme a Cristiano Ronaldo, che però ha spalmato i suoi gol in quattro edizioni. A Platini, gli stranieri erano due per squadra, si sommava Boniek, attaccante polacco velocissimo, contropiedista fulmineo, che, in realtà, avrebbe saputo interpretare altri tre o quattro ruoli. A Udine, giocava il più amato, se non il più forte giocatore brasiliano dopo Pelé, perché quello è stato Ronaldo, Arthur Antunes Coimbra Zico. Già dall'anno prima. Uno che dipingeva i calci di punizione, che dribblava come avrei visto fare dopo solo a Roberto Baggio, un artista magnifico eppure essenziale. Nel 1983, quando il suo trasferimento all'Udinese pareva saltare, i tifosi esposero uno striscione eloquente, di asburgica nostalgia: "O Zico o Austria". A loro si aggiunse, il più forte di tutti, l'Argentino Diego Armando Maradona, che approdò a Napoli e ne divenne simbolo e sinossi. Titolare di un sinistro fiabesco. Reduce da due stagioni tribolate al Barca, tra tibie rotte ed intossicazioni alimentari, arrivò con la reputazione di nuovo Sivori. Se ne sarebbe andato come il più grande calciatore della storia. All'Inter giunse il capitano della nazionale tedesca e della Germania Ovest, Karl Heinze Rummenigge. Un'apparizione. Quadricipiti erculei, progressione inarrestabile, tiro violento, acrobazie mai viste. Alla Fiorentina, dove la difesa era governata dal Caudillo Daniel Passarella, capitano dell'Argentina campione del mondo nel 1978, approdò Socrates. Mezzala brasiliana, colto e anticonformista, medico ma fortissimo bevitore: elegante in campo, virtuoso del colpo di tacco e, al tempo stesso, del gioco verticale, grande colpitore di testa per via del suo fisico da ala piccola del basket, aveva ispirato la rivoluzione della democracia corinthiana. Poche regole, allenamenti autogestiti, fantasia al potere. In Italia, sarebbe stato poco capito, soprattutto per quell'aria di sufficienza con cui si cimentava nelle imprese del pallone. Un grande fuoriclasse. Come Junior che vestì la maglia del Torino: terzino sinistro naif in nazionale, in Italia divenne regista di movimento, dal dribbling stretto e dal tiro improvviso. Cerezo, altro pilastro del Brasile di Santana che perse dall'Italia a Spagna 1982, affiancava il grande Falcao alla Roma. Cerezo era così forte che, anni dopo, a quasi quarant'anni correva ancora il doppio di un ventenne. E, degli assi verdeoro, in Italia, c'era anche Dirceu, uno che aveva spesso tenuto Zico in panchina ai mondiali argentini del 1978: fantasista sbrigliato come i suoi ricci, con un mancino tonitruante. Quell'anno all'Ascoli, nel girovagare incessante della sua arte calcistica. Al Verona di Bagnoli, quarto nel 1983 e sesto nel 1984, arrivarono il tedesco Briegel, terzino sinistro nella Germania Ovest, che Bagnoli schierò da mediano d'assalto, e il danese Elkjaer. Due assi, che ebbero molta parte nello storico successo gialloblu. Basti dire che Briegel segnò nove gol su azione! Elkjaer, uno che portava a spasso tre difensori alla volta, che accelerava come oggi può fare solo Mbappé, ne segnò otto, ma tutti decisivi. E poi c'erano il centravanti inglese Trevor Francis, alla Samp, fermato da tanti infortuni, il centravanti austriaco Schachner, al Toro, il giovane fantasista danese Michael Laudrup, alla Lazio, l'ariete inglese Hateley al Milan. Una simile ricchezza di assi non c'era stata prima e non ci sarebbe stata dopo. Chi mancava? Schuster, che giocava nel Barca, il giovane Francescoli che brillava al River Plate, forse Lineker, e dico forse perché stava venendo fuori allora come la quinta del Buitre in Spagna. Lo scudetto, si diceva, andò al Verona, con 43 punti, davanti al Toro, 39 punti, e all'Inter, 38.