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giovedì 9 aprile 2020

L'eleganza di Michael Laudrup, il maestro del dribbling a due tocchi

Anno di grazia 1983. La serie A di calcio è il campionato più bello e più competitivo del mondo. Giungono da tutto il mondo i migliori giocatori e tanti già ci sono. Arriva pure, alla Lazio neopromossa, un diciannovenne danese, Michael Laudrup, ma in prestito, perché il suo cartellino appartiene alla Juventus: Boniperti, che quando giocava ne ebbe parecchi, e forti, di danesi in squadra, scommette sul suo futuro di campione. Il problema è trovargli un ruolo. Laudrup è alto 1,83 m, ha un fisico asciutto, gambe forti e reattive. Eccelle nel dribbling, ha uno scatto fulmineo. Pensano in molti che sia una seconda punta. Ma, segna poco. Anche quando, nel 1985, si trasferisce alla Juve, per sostituire Boniek. Platini lo fulmina con un giudizio splendido ma feroce: il più grande giocatore del mondo, in allenamento. Con i bianconeri gioca quattro stagioni da eterna promessa, fino al 1989. E la serie A lo saluta come un incompiuto, privo di grande personalità. Lo prende, però, e non è un caso, il Barca di Cruijff il magnifico. Avviene la svolta. Laudrup con i blaugrana inizia ad interpretare il suo ruolo naturale: la mezzala. Comanda il gioco offensivo, dribbla con naturalezza disarmante, segna con quel suo tiro secco, improvviso, anticipato. Non è barocco, sebbene tecnicamente superiore. Questo lo rende molto apprezzato da Cruijff. Il Barca vince tutto, in Spagna, in Europa e nel mondo. Solo nel 1994, finale di Coppa dei Campioni contro il Milan, la regola dei tre stranieri in campo, e un errore di valutazione del tecnico olandese tiene Michael Laudrup fuori da una partita che il Barcellona perde a sorpresa per 4-0. Senza il danese, il centrocampo catalano è lento e prevedibile. Laudrup poi andrà al Real Madrid, vincendo un'altra Liga, quindi in Giappone, per chiudere nell'Ajax che era stato di Cruijff. Manca il successo agli Europei di Svezia del 1992, perché aveva temporaneamente abbandonato la nazionale danese. Il suo congedo avviene ai mondiali di Francia del 1998. Quarti di finale contro il Brasile. Tolto Ronaldo, il più brasiliano in campo, per tocco ed estro e fantasia è proprio il danese Laudrup. L'eleganza applicata al gioco del calcio. Quell'eleganza, anche nel tratto e nei comportamenti, che fuorviò molti giudizi su di lui. Laudrup era un gentiluomo che si scaldava poco. Ma accendeva il gioco. Chiedete ai giocatori, passati e presenti chi sia stato il miglior giocatore della Liga nei primi anni '90. Risponderanno, anzi hanno tutti già risposto, Michael Laudrup. Il suo dribbling a due tocchi (the two-touch dribble), sempre lo stesso, con palla spostata a velocità massima dal destro al sinistro, ha fatto scuola. Quasi quanto la finta di Garrincha.

martedì 14 gennaio 2020

Eriksen all'Inter? Ritratto del talento danese ispirato da Michael Laudrup e consacrato da De Boer

Si avvicina, stando a molte fonti, il passaggio di Eriksen all'Inter. Da giovane e predestinato, molti credettero di ravvisare in lui la versione moderna di Michael Laudrup, uno che in Italia, paese provinciale quanto alla critica sportiva, si ricorda come un talento incostante e, per contro, in Spagna, considerano il miglior giocatore della Liga negli anni '90. Ora, del maggiore dei Laudrup Eriksen ha i piedi, ma non il dribbling stretto e la progressione. Ha però un'incidenza paragonabile nel gioco e mi riferisco sempre al Laudrup di Spagna, che, smessi i panni della seconda punta, divenne formidabile mezzala di regia sotto la guida sapiente di Cruijff. Rispetto a Laudrup, Eriksen calcia meglio le punizioni. Per gli assist, il confronto è quasi speculare. Grande calciatore Eriksen, non abbastanza considerato per aver giocato in una Danimarca poco competitiva e in un Tottenham, che ha sempre sfiorato le vittorie più importanti. L'Inter, con lui, farebbe un grande salto di qualità. C'è un fatto, che molti dimenticano. Eriksen è diventato un grande giocatore nell'Ajax allenato da Frank De Boer. Il più sottovalutato allenatore dell'Inter degli ultimi dieci anni. Tanto per ricordare la mediocrità, nutrita di pregiudizi, della critica sportiva italiana.