L'Inter e il suo gioco nella storia del calcio
Le squadre di calcio hanno un'anima? La questione sembrerebbe di lana caprina. E non si può applicare la teologia dell'Aquinate allo sport più popolare. Certo e ci mancherebbe altro. Però, ogni squadra, pensateci bene, è diversa dalle altre. Ha, se non una propria anima, un proprio modo di essere, di comunicare. E di stare sul campo. Pensate al River Plate e al Boca Juniors: stili di gioco diversi e riconoscibili che si perpetuano da più di un secolo. Pensate all'Ajax, al calcio totale, che si nutre di atletismo e tecnica diffusa, coralità e visione d'assieme: gioca così da 50 anni e ieri si è visto contro l'Atalanta in Champions. Anche nel calcio italiano è così. Le grandi tradizionali hanno il loro stile di gioco. Il Milan, almeno dai tempi degli svedesi Gren, Nordahl e Liedholm, poi l'uruguagio Schiaffino, ha cercato di comandare il gioco, di attaccare prima di tutto. La Juve, al netto del suo peso politico sportivo sempre ingentissimo, ha tradizionalmente schierato squadre coriacee, muscolari, innervate ogni tanto da un giocatore di talento superiore: Sivori, Platini, Roberto Baggio, Zidane. Ma non c'è stata Juve più Juve di quella di Trapattoni degli anni '70: quella di Furino, Benetti, Tardelli. Così l'Inter di Conte. L'Inter, per venire al tema del post, è sempre stata squadra lunatica e di reazione. Grande difesa, contropiede, ma potete anche parlare di ripartenze fulminee, e genio diffuso in avanti. Dai tempi di Cevenini III, uno che con il pallone faceva cose mai viste prima. Ed erano gli anni '20. E poi Meazza, che, ci fossero più documentate immagini di repertorio, metterebbe a tacere le dispute sul più grande giocatore di sempre. Maradona, escluso, va da sé. Le Inter vincenti che si ricordino avevano tutte queste caratteristiche. Quella di Foni - scudetti nel 1953 e nel 1954 - con il libero, quando pochi lo usavano, e un attacco atomico: la rapidità di Lorenzi, la forza di Nyers, il genio ribelle dello svedese sudamericano Skoglund. Che avrebbe avuto emuli in Corso, Beccalossi, Recoba. Della Grande Inter tutti sanno tutto. Quante partite vinse per 1-0? Per una punizione di Corso? Per un contropiede di Jair o Mazzola? E la difesa, quella difesa leggendaria, non c'era modo di violarla. Anche l'Inter di Bersellini era così. Solidissima dietro, davanti si concedeva il lusso di Beccalossi, che tutti credono mancino, ma era destro in origine, che dribblava passeggiando, dietro le due punte Altobelli e Muraro. Anche l'Inter dei record era così. Più forte, ma giocava così. Contrattaccando. La cavalcata di Berti contro il Bayern Monaco è il manifesto di quella squadra. Così pure l'Inter di Simoni, che si chiudeva e ripartiva liberando Moriero e sua maestà Ronaldo. La stessa Inter del triplete, che pure aveva una rosa e possibilità con pochi eguali al suo tempo, era una squadra reattiva. Monolitica dietro e fantasiosa in avanti. Ora, cosa c'entra lo schema di Conte, il pressing alto, uno sterile possesso del pallone, tre difensori, due terzini e tre mediani, senza un fantasista e senza fantasia, con la storia calcistica nerazzurra? Si può vincere contro la propria storia? Accadde al Brasile del 1994. Ma fu un'eccezione. E l'eccezione è sempre l'ancella della regola.
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