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giovedì 28 marzo 2019

La deriva gergale del racconto calcistico

Ormai è impossibile seguire una telecronaca, ma anche leggere un articolo di giornale, senza inciampare in una delle tante, insopportabili, espressioni gergali. Spesso, articolate locuzioni dal significato oscuro. Tra quelle di maggior fastidio, c'è "a palla scoperta" o l'analoga "a palla coperta". A voler significare, nel primo caso, che il portatore di palla avversario non è marcato e ha tempo e spazio per decidere la giocata, nel secondo, che l'avversario è marcato e allora la difesa può concedersi anche il lusso di avanzare. Il racconto calcistico declina verso il tecnicismo, che è la fase senile di ogni invenzione, anche ludica. Si è passati dalle cronache epiche di sapore ottocentesco, quelle di Bruno Roghi, per intenderci, quando era tutto un fiorire di grandi immagini e metafore, alla prosa breriana, che prendeva a prestito termini dalla scherma e dal pugilato ma anche dal linguaggio militare, arricchita da neologismi classicheggianti più o meno felici, fino al covercianese, che ora imperversa. Il linguaggio del corso allenatori, dove si pretende di fare scienza di un gioco. Gli effetti sono comici. Il calcio non è una scienza, come, diciamolo, non lo è l'economia. Ciò non vuol dire che non occorra osservazione e competenza ed esperienza per raccontarlo. Ma, trattarlo come un fenomeno misurabile è assurdo.

2 commenti:

  1. Se poi, detto ciò sulla forma espositiva, passassimo ad analizzare il merito di certe cronache sportive, ci sarebbe da impazzire...

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    1. Appunto. Ormai, si bada solo al cosiddetto bacino d'utenza, agli abbonati e alle loro preferenze calcistiche. L'imparzialità non è possibile, ma dovrebbe almeno essere, un tempo era così, un'ambizione, un'aspirazione, una tendenza. Invece, si tifa ai microfoni. E sulla carta stampata. E certe pose da dotti servono proprio a coprire la diffusa partigianeria. In sintesi: si parla male, si scrive peggio, si sa poco, ma si finge di sapere moltissimo.

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