Ormai è impossibile seguire una telecronaca, ma anche leggere un articolo di giornale, senza inciampare in una delle tante, insopportabili, espressioni gergali. Spesso, articolate locuzioni dal significato oscuro. Tra quelle di maggior fastidio, c'è "a palla scoperta" o l'analoga "a palla coperta". A voler significare, nel primo caso, che il portatore di palla avversario non è marcato e ha tempo e spazio per decidere la giocata, nel secondo, che l'avversario è marcato e allora la difesa può concedersi anche il lusso di avanzare. Il racconto calcistico declina verso il tecnicismo, che è la fase senile di ogni invenzione, anche ludica. Si è passati dalle cronache epiche di sapore ottocentesco, quelle di Bruno Roghi, per intenderci, quando era tutto un fiorire di grandi immagini e metafore, alla prosa breriana, che prendeva a prestito termini dalla scherma e dal pugilato ma anche dal linguaggio militare, arricchita da neologismi classicheggianti più o meno felici, fino al covercianese, che ora imperversa. Il linguaggio del corso allenatori, dove si pretende di fare scienza di un gioco. Gli effetti sono comici. Il calcio non è una scienza, come, diciamolo, non lo è l'economia. Ciò non vuol dire che non occorra osservazione e competenza ed esperienza per raccontarlo. Ma, trattarlo come un fenomeno misurabile è assurdo.