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lunedì 9 gennaio 2017

L'arte del dribbling: 2. Cevenini III

Quando il calcio arrivò in Italia, ancora si trattava di ammassarsi in mezzo al campo, alla ricerca sbandata del gol. L'unico schema, oltre alla carica bersaglieresca, spettacolare anche, ma pure comica e confusa, era quello inglese. I traversoni per la testa degli attaccanti. I calciatori del tempo, alcuni, pochi, venivano dalla ginnastica, cavallo, quadro svedese e cose simili, avevano forza fisica ma tocco pessimo o mediocre, altri, i più, dalla strada, avevano tempo da perdere e poca voglia di lavorare. Considerato che tirar calci ad un pallone, fino almeno alla prima guerra mondiale, rendeva pochissimo anche ai livelli più alti, anche nella massima divisione. Il primo a rompere la monotonia di questo dilettantismo fu Luigi Cevenini, passato alla storia come Cevenini III, fratello mezzano di altri quattro, tutti calciatori, tutti più o meno celebri, ma non come lui. Ecco Cevenini III, per stare almeno al calcio italiano, fu il primo grande, e  per alcuni inarrivato, artista del dribbling. Fisico asciutto, prima che la vita dolce l'arrotondasse un poco, e nervoso, disprezzo del gioco di squadra, uso a dileggiare i compagni al primo errore e gli avversari ad ogni colpo riuscito, Cevenini III era inafferrabile con la palla al piede. Per lo scatto ed il repentino cambio di direzione, per il tocco sapientissimo, perché naturale e quella infinita varietà di finte e controfinte, che mandava ai matti i suoi controllori. Un asso. Un autentico asso, che dribblava e segnava, solo con l'Inter 158 gol in campionato. Cercò anche l'avventura oltremanica e gli inglesi l'avrebbero messo sotto contratto, perché, alle loro latitudini, il dribbling, prima che iniziasse Stanley Matthwes, era  più che una rarità. Epperò rompevano le scatole con la serietà e la puntualità e la decenza. E Luigi Cevenini, detto Zizì, perché straparlava e dava fastidio come una zanzara, era solito entrare in campo con la sigaretta accesa. E se ne fregava del fair play. E così se ne tornò in Italia. Quando, nel 1926, cambiò di nuovo la regola sul fuorigioco, dai quattro iniziali, si era passati prima a tre e poi, appunto nel 1926 a due avversari tra l'attaccante e la porta per essere in gioco, Cevenini III, che giocava da solo e saltava tutti, divenne meno decisivo, perché meno indispensabile. Dall'uno contro tutti si migrava verso l'uno contro uno. Poi, nel 1927, si affacciò nell'Inter il giovane Giuseppe Meazza, il massimo calciatore italiano di sempre, e Cevenini, che aveva occhi per il talento, lo capì subito ed intese pure che il tempo suo stava finendo. All'Inter almeno. Continuò la sua vita randagia, sempre eccellendo in tutti i giochi con la palla, dal biliardo alle bocce. Finì quasi dimenticato. Ma, il suo dribbling ha avuto pochi eguali nella storia del calcio. Il simbolo calcistico dei "ruggenti anni venti".

giovedì 5 gennaio 2017

L'arte del dribbling: 1.

Nel dizionario Treccani in rete, alla voce dribbling, si legge: Nel gioco del calcio, manovra individuale dell’atleta che consiste in leggeri tocchi del piede, dati rapidamente al pallone, per portarlo da destra a sinistra o viceversa, così da ingannare l’avversario e scartarlo velocemente. Non so quanto efficace risulti questa vasta perifrasi, ma sospetto poco. Dacché il dribbling è l'esercizio più naturale del gioco del calcio, il fondamentale che non si allena o si allena pochissimo. Ci sono stati e ci sono ancora, moltissimi per la verità, calciatori, anche vincenti e reputati, che un dribbling non sanno eseguirlo. E neppure immaginarlo. Sì, perché, come ha spiegato Jorge Valdano, calciatore grande e più grande scrittore, le partite, come le singole giocate, sono sempre prima immaginate. Ma, torniamo al dribbling. Si praticava già nel diciannovesimo secolo, agli albori, ai tempi della "Piramide di Cambridge", quando, assente ogni tattica, il calcio somigliava ad una baruffa di cortile, tutti affannati a contendersi un pallone. Che, diversamente da quanto accadeva nel rugby, si poteva passare anche in avanti, il che rendeva meno necessaria la compattezza delle avanzate e delle ritirate. Epperò il dribbling già c'era, a testimoniare le origini democratiche, e vieppiù proletarie, di un gioco nel quale non contava solo la stazza, non solo la muscolatura, che ai tempi era anche il frutto di una ricca alimentazione negata ai più. No, il dribbling stava lì a spiegare come destrezza ed inventiva, agilità ed abilità tecnica potessero nuovamente inverare la vecchia storia di Davide e Golia. Quando, nel 1864, furono approvate le regole fondamentali del gioco del calcio, cominciò la storia ufficiale del dribbling. L'unica arma efficace contro il fuorigioco, che allora veniva dichiarato ogni volta che, tra il giocatore che riceveva la palla e la porta nemica, ci fossero meno di quattro avversari (in genere, il portiere più tre difensori). Insomma, in fuorigioco si poteva finire spesso e malvolentieri! Con continue interruzioni della partita ed attacchi subito frustrati. L'unica maniera di evadere da quella costrizione tattica era di prender palla e partire in dribbling, scartare il maggior numero di avversari e battere il portiere.