La scomparsa, ieri, di Raymond Poulidor, simbolo ed icona del ciclismo, non soltanto francese, ha riacceso la memoria di un'epoca che sembra oggi molto distante. Poulidor, classe 1936, seppe attraversare, in diciassette anni di carriera, due generazioni ciclistiche. Rivaleggiò a lungo con il principesco Anquetil, forse il più grande passista e cronoman della storia del ciclismo, e poi con "le cannibale" belga Merckx, certamente il più forte ciclista della storia. Due che seppero vincere cinque Tour de France, mentre Poulidor, otto volte sul podio, non poté mai gustare il trionfo finale alla Grande Boucle. Che un incidente gli tolse nel fatidico 1968, quando per lui sembrava fatta. Di qui la fama di eterno secondo, complici anche i quattro podi senza successi al campionato del mondo e la malchance che gli impedì sempre di vestire la maglia gialla. Onore invece toccato anche a molti ciclisti anonimi, magari all'esito di una fuga "bidone". Eppure era un corridore solidissimo, Poulidor, capace di vincere eccome: conquistò la Vuelta a Espana nel 1964, la Milano-Sanremo nel 1961, la Freccia Vallone nel 1963, un mucchio di brevi corse a tappe, sette frazioni dell'amatissimo Tour. Il suo rapporto con i tifosi francesi divenne simbiotico. E, ciò che più conta, rimase inalterato nel corso del tempo. Si era ritirato nel 1977, ma era ancora popolare come quando correva. Merito suo e della sua strepitosa e letteraria carriera, certo nobilitata anche dalle sconfitte alla Ettore, e merito dei francesi, che, al netto di molti difetti, hanno della storia, specialmente della propria storia, una nozione e un sentimento superiori ai nostri.