Preferire l'Inter all'Arabia, è mai possibile? Anni fa avrei risposto che, no, non è possibile. Oggi, maturato dagli anni, rispondo che, sì, è possibile. Non solo perché è appena successo, no, non per questo, ma perché ho avuto modo di osservare così tante decisioni strampalate che davvero non mi sorprendo più. Nell'atteggiamento passivo e sconfortato dei calciatori in finale forse c'era la premonizione, forse, a esser maliziosi, lo sapevano proprio, che sarebbe stata l'ultima con Simone Inzaghi in panchina. Mourinho, almeno, sbalordì tutti e lasciò da vincitore. Insomma, non un epilogo eroico quello inzaghiano all'Inter. Detto questo, in quattro anni, i conti nerazzurri sono migliorati moltissimo e ciò anche grazie al lavoro del tecnico piacentino, che ha proposto un calcio spesso brillante e brioso, nel complesso sempre competitivo. Sono arrivati i trofei, uno scudetto stravinto, due Coppe Italia e tre Supercoppe italiane. Due scudetti sono stati persi punto a punto. E lì si sono visti gli errori di Inzaghi, troppo devoto al suo 3-5-2, troppo ortodosso nell'applicazione del suo personalissimo manuale Cencelli dei cambi programmati, troppo lento nel capovolgere, all'occorrenza, uno spartito sempre uguale e poco efficace quando suonato con la sordina della stanchezza, troppo affezionato alle sue "coperte di Linus", pur spesso utili, come Dzeko, Mkhitaryan e Acerbi. Poi, anche un certo vento istituzionale e arbitrale ha soffiato contro, ma questo all'Inter era già successo varie volte, a cominciare dal 1961. Infine, le due finali di Champions League. Entrambe perse, una bene, con il City, l'altra malissimo, tre giorni orsono, con il Psg. Insomma, il bilancio resta complessivamente buono, quello di un tecnico aziendalista, che lavora e ottiene o almeno avvicina risultati di prestigio. Non proprio un vincente. Di certo uno che ha sbagliato la scena finale, quella più solenne, quella più memorabile: l'uscita. E non è poco.