Il calcio riprese, in Europa, molto lentamente dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Dalla fine degli anni '40 e nei primi anni '50 ci fu una perentoria affermazione del football nordico, svedese e danese, che non ha eguali nella storia. Forse perché la Svezia era rimasta fuori dal conflitto e la Danimarca ne era uscita prestissimo. La Svezia di Nordahl, Gren e Liedholm vinse l'oro alle Olimpiadi di Londra del 1948 e, senza di loro, perché ormai professionisti con il Milan - gli svedesi avevano una concezione solo dilettantistica del calcio - giunse terza ai mondiali del 1950 in Brasile.
Il Mondiale brasiliano fu complicato. Il secondo in Sudamerica, dopo quello uruguaiano del 1930. E lo stesso vincitore. L'Uruguay del divino dieci Schiaffino, tecnico ma tenace, artista del dribbling ma essenziale, il primo, pare, ad usare con sistematicità il tackle in scivolata, con gli arbitri che gli fischiavano sempre fallo.
Lui e Ghiggia firmarono il 2-1 nella finale, che era solo l'ultima partita di un girone conclusivo, che gettò nella disperazione milioni di brasiliani. Il calcio era già la loro religione laica, come lo è il ciclismo per il Belgio. L'Italia, orfana dei campionissimi del Toro scomparsi a Superga, vi ottenne una dolente eliminazione al primo turno. Come i superbi maestri inglesi: disertati i precedenti mondiali per ritenuta superiorità, vennero buttati fuori dagli ex coloni degli Stati Uniti, che stavano al calcio, come gli inglesi al buon cibo. Il magnifico centravanti brasiliano Ademir, nove gol e capocannoniere, dovette contentarsi del secondo posto. E, con lui, Zizinho. Uno del calibro di Pelé o, almeno di Zico, penalizzato dall'assenza di vere riprese televisive. Lo stesso destino di Meazza e Sindelar, di Leonidas e dello stesso Valentino Mazzola.
In Italia, dominavano Inter, Juve e, grazie agli svedesi più, dopo, lo stesso Schiaffino, il Milan. Che vinse nel 1951 uno scudetto dopo 44 anni! L'Inter aveva un formidabile trio d'attacco: il brevilineo e scattista Lorenzi, il fantasioso mancino svedese Skoglund e l'apolide Nyers, dalla progressione implacabile e dal tiro micidiale. Con Foni, due scudetti consecutivi nel '53 e nel '54. Squadra raccolta, difesa e contropiede. E Blason libero, ruolo e definizione che avrebbero avuto larghissima fortuna nel decennio successivo. Nella seconda metà degli anni '50, divenne una potenza calcistica anche la Fiorentina del portiere Sarti, dell'ala brasiliana Julinho, dell'attaccante argentino Montuori. Nel 1956 fu scudetto e, l'anno dopo, finale di Coppa dei Campioni, contro il Real Madrid di Santiago Bernabeu, illuminato dal massimo Alfredo Di Stefano.
Di Stefano, classe 1926, era il successore calcistico di Valentino Mazzola. Più alto e più attaccante, ma come il capitano del Grande Torino, uomo ovunque, che contrastava, dirigeva il gioco e lo concludeva. Un asso carismatico, che aveva difeso i colori della nazionale argentina, poi di quella colombiana e che avrebbe giocato anche con la Spagna.
Nel 1958, l'avrebbe raggiunto un altro fenomeno calcistico, l'ungherese Ferenc Puskas, totem della Grande Ungheria che perse d'un soffio i mondiali del 1954. L'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956 aveva spinto molti grandi giocatori della miglior squadra magiara, la Honved, che si trovavano in trasferta, a non rientrare in patria. Tra questi Puskas, che, prima del Real, avrebbe scontato due anni d'inattività forzata, preso oltre dieci chili e giocato altri otto anni, limitando il suo raggio d'azione, pronto ad innescare il suo tremendo sinistro. Le ultime due, delle cinque Coppe dei Campioni consecutive del Real Madrid, avrebbero portato anche la sua firma.
Ferenc Puskas |
Si diceva del mondiale del 1954, che si disputò in Svizzera. L'Ungheria vi arrivava da grande favorita. Dopo aver stravinto - nei paesi dell'Est erano tutti dilettanti - le Olimpiadi di Helsinki del 1952. Nel novembre del 1953, Puskas, mezzala sinistra, Kocsis, mezzala destra, e Hidegkuti, centravanti arretrato di altissima sapienza calcistica, avevano inflitto un perentorio 6-3 agli inglesi a Wembley. Poco dopo avevano tramortito gli avversari increduli con un 7-1 casalingo. In Svizzera, però, complice anche un infortunio di Puskas, che giocò menomato la finale, pur segnando il gol del vantaggio, s'impose la Germania Ovest, 2-1. E fu il centravanti tedesco Fritz Walter a sollevare la Coppa. I magiari, che erano stati grandissimi già negli anni '30, con Sarosi tra i pochi a contendere a Meazza il titolo di miglior giocatore del mondo, giocavano un calcio mai visto. Palla soprattutto a terra, terzini che attaccavano, e tiravano tutti da fuori. Il tiro all'ungherese, d'esterno piede, divenne proverbiale. I brasiliani, che a quel mondiale fallirono, decisero d'ingaggiare tecnici magiari per insegnare ai propri giocolieri il tiro dalla lunga e media distanza: non si poteva, capirono, entrare sempre in porta con la palla. Fu una delle premesse del successo verdeoro ai mondiali di Svezia del 1958.
Quei mondiali, quelli di Svezia 1958, l'Italia non li giocò proprio, come poi le sarebbe successo con gli ultimi di Russia 2018. Vinse il Brasile allenato da Vicente Italo Feola - il nome ne dice le origini - che schierava un attacco atomico - l'atomica era l'ossessione di quegli anni - con Garrincha, Didì, Vavà, Pelé e Zagallo. E se quest'ultimo tornava, ogni tanto, gli altri molto meno. E i terzini Djalma Santos e Nilton Santos attaccavano come ali aggiunte. Un trionfo, che rivelò al mondo l'estro impareggiabile di un Pelé non ancora diciottenne. Fu battuta la Svezia padrona di casa in finale, con gli stagionati, ma fortissimi, Liedholm e Skoglund ancora in campo. Capocannoniere, 13 gol!, Fontaine, attaccante francese d'origini non francesi, come la mezzala Kopa. E come, dopo, Platini, Zidane, Henry, Mbappé.
Il caso volle che Di Stefano non giocasse nemmeno un mondiale. Come lui Kubala, straordinario centrocampista del Barcellona, ungherese che debuttò con la nazionale cecoslovacca, migrò in quella ungherese e concluse in quella spagnola. Aveva un fisico, Kubala, che sarebbe ancora oggi dominante e un controllo di palla che si rivide in Zidane e Riquelme.
Lui, il detto Di Stefano e Valentino Mazzola sono stati i più forti campioni a non aver, non per loro colpa, disputato un solo mondiale in carriera.