Bella intervista sul Corriere della Sera di oggi a Carlitos Tevez da parte di Carlos Passerini. Il campione argentino, declinante in campo, ma sempre simbolo del Boca Juniors, ha detto che il livello tecnico, tra i calciatori italiani, si è abbassato, da qualche anno, perché non si gioca più per strada, sui campetti di fortuna, ancora frequentati in Argentina, dove la tecnica s'impara per forza, dove ci s'ingegna a schivare colpi e a non cadere, a gestire la palla in spazi angusti, ad inventare. Pochissima tattica, moltissima tecnica. Il contrario di quanto normalmente accada nelle scuole calcio nostrane. Per inciso, Tevez ha anche lodato Lautaro Martinez. Le sue parole, che seguono, fra molte altre, quelle pronunciate alcuni mesi fa da Ardiles, sono, per me, la prova che Lautaro Martinez, lo conosco poco, è davvero forte. Uso l'indicativo non a caso.
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martedì 12 giugno 2018
Ha ragione Tevez: tecnica dimenticata in Italia. Mancano i campetti di una volta. Lautaro Martinez è davvero forte
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mercoledì 15 novembre 2017
La rovina del calcio italiano: le scuole calcio
La locuzione scuola calcio mi ha sempre infastidito. Come se si potesse imparare a giocare. A giocare si comincia, dovrebbe cominciarsi, in modo naturale. Senza molte regole, senza grandi consegne, senza alcuna aspettativa. Un tempo, fino ai dieci anni almeno, si giocava per strada, in giardino, sui campetti oratoriali. Senza l'ombra di sedicenti allenatori, di solito giocatori mancati, e senza la supervisione ossessiva ed ossessionante di genitori competitivi. Quanto scritto oggi da Sconcerti, sul Corriere della Sera, lo condivido pressoché integralmente. Io, personalmente, ricordo che i triangoli imparavamo a chiuderli usando il muro come sponda. Che a stare in piedi, evitando simulazioni patetiche, ci tenevamo eccome, per non sbucciarci le ginocchia sull'asfalto. Lo stop si imparava con il super santos o con il più leggero super tele. E chi stoppava quei palloni, avrebbe stoppato con molta più facilità il tango e, vieppiù, il pallone di cuoio. Insomma, alle elementari, ma che scuola calcio bisogna fare? La nuova generazione di calciatori italiani frequenta la scuola calcio dall'età di 5 o 6 anni. Ma, come si può? Ed il gioco, il giuoco, del calcio, che fine fa? Vedere dei ragazzini obbligati a fare il fuorigioco, le diagonali, le sovrapposizioni, è assurdo. Un Roberto Baggio, così, non potrà più nascere. Tutti i grandi talenti, quelli autentici, sono cresciuti per strada. Con questo non voglio dire, va da sé, che giocare liberi, su campetti di fortuna, renda tutti grandi giocatori. Per carità. Io non lo sono diventato e come me tantissimi altri. Epperò, la tecnica s'impara lì. E non si dimentica più. I grandi giocatori, quelli davvero capaci di fare la differenza, sono venuti tutti da lì. Poi, ma solo poi, è giusto che venga la scuola. Dopo il gioco. Dopo aver giocato. Perché il calcio è prima di tutto un gioco. Ed allora ci sta che gli esordienti imparino, poco a poco, a sovrapporsi, a scalare. A conoscere le astuzie tattiche e le strategie del gioco. I giocatori italiani di oggi sono tutti mediamente più alti e più grossi di un tempo. Più strutturati. Sanno muoversi assieme. Epperò crossano male, stoppano peggio, tirano tre metri sopra la traversa. Non dribblano nemmeno un birillo. Aveva più tecnica il Roberto Mancini, che, nel 1981, esordì con il Bologna in serie A, di tutti i pretesi trequartisti o fantasisti italiani di oggi messi assieme. Non credo che la FIGC abbia mai avuto tanti tesserati come oggi, nella sua storia più che centenaria. Ma, la modestia tecnica dei giocatori italiani attuali, tutti comprimari nelle grandi squadre, è imbarazzante. Troppa scuola calcio. Troppo presto. L'eliminazione contro la Svezia si spiega anche così.
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