I greci, che la sapevano lunga, si erano persuasi che nessun peccato fosse più difficile da espiare della felicità. La felicità, un peccato? Sì, perché cagione dell'invidia degli dei, la φθόνος τῶν θεῶν. La scomparsa tragica, imprevedibile, precoce di un talento detto fortunato e perciò felice come Kobe Bryant riaccende la luce su quell'oscuro sentimento: l'invidia. A dirla tutta, non credo che Kobe Bryant fosse stato in tutto e per tutto fortunato nella sua vita di campionissimo. Intanto perché non gli era riuscito di mantenere un rapporto affettuoso con la sua famiglia d'origine e credo che per lui fosse motivo di tristezza. Poi, perché della sua fortuna Bryant non era stato erede sventato e accidentale, ma costruttore sapiente e infaticabile, autentico faber. Sapeva di pallacanestro come pochi altri. Aveva fatto di uno sport dai movimenti codificati e codificabili e perciò replicati e replicabili quasi una scienza applicata al talento, che pure aveva in abbondanza: era figlio d'arte. Ed aveva appreso in Italia i fondamentali del basket. Venti anni di Nba senza mai scendere sotto una soglia, elevatissima, di rendimento. Una personalità debordante, la capacità, stimmata del fuoriclasse, di decidere nei momenti solenni della partita, di chiedere la palla mentre gli altri si nascondono. E, poi, anche di segnare sul serio. Cinque titoli con L.A. Lakers, la coppia improbabile ma vincente con O'Neal. la guida geniale di Phil Jackson. Kobe Bryant era un leader naturale e allo stesso tempo programmato. Ma, da se stesso. Dalla propria ansia di perfezione, dal proprio desiderio di ascendere a vertici che forse, per davvero, gli hanno attirato l'invidia degli dei. Era un eroe Kobe Bryant ed è molto raro che gli eroi invecchino.
Kobe Bryant (1978-2020) |