Elenco blog personale

lunedì 25 maggio 2020

Recoba serviva più assist di Pirlo

Questo blog è sempre stato recobiano. Premessa necessaria. Sono sempre stato recobiano. Detto questo, qual era il ruolo Alvaro Recoba? Io ho sempre pensato che fosse una mezzala. La classica mezzala sudamericana, votata all'attacco, inteso come offesa alla squadra avversaria, con poca o nessuna attitudine alla fase difensiva. Insomma, un interno sinistro. Chi abbia visto tutte le sue partite, io le ho viste quasi tutte, anche nel campionato uruguaiano e con la Celeste, sa che Recoba partiva da dietro e veniva a prendersi palla anche nella sua metà campo. Per muovere in progressione o liberare il suo fantastico lancio. Come in un derby contro il Milan: lancio di quaranta metri per Vieri. In Europa, dovette adattarsi a giocare seconda punta, per lo più, faticando spalle alla porta, centrocampista di fascia sinistra, con Cuper!, o attaccante esterno con Zaccheroni. O riserva di lusso, con quasi tutti. Solo Novellino, a Venezia, gli concesse tutta la libertà indispensabile. Però, sappiamo che ci sono tanti però. Incostanza di rendimento, prove opache in mezzo a molte superlative. Ancora oggi, per tanti è stato il titolare del miglior sinistro degli ultimi 40 anni, dopo quello di Maradona, per altri un dissipatore neghittoso di talento, per altri addirittura un estroso sopravvalutato. Perché tanta difformità di vedute? L'equivoco, a mio parere, è nato dal ruolo. Non averlo capito ha sviato molti giudizi. 
File:Álvaro Recoba - FC Inter 1997-98.jpg - Wikipedia
Alvaro Recoba, Inter
E allora stabilisco un confronto tra uno dei massimi centrocampisti degli ultimi 20 anni, Andrea Pirlo, e Recoba, restringendo il campo d'indagine alla serie A. Pirlo, nato trequartista, divenne regista arretrato, e il suo merito principale, fra i molti, era riconosciuto nella capacità di servire assist ai compagni. Ebbene, dopo ricerca, voglio offrire un dato per riflettere. 
Andrea Pirlo - Wikipedia
Andrea Pirlo, Juve
Pirlo: 493 partite in serie A, 58 gol e 86 assist
Recoba: 207 partite in serie A, 62 gol, 52 assist


Insomma, Recoba, sempre giudicato solo per i gol, che non furono pochi, ha servito 0,25 assist a partita. Pirlo, 0,17 assist a partita. E, chiarisco, non giocavano nello stesso ruolo. Pirlo era meno offensivo di Recoba e molto più regista. Ma, Recoba mandava a rete i compagni come e più di Pirlo. Non trovò il suo Mazzone o il suo Ancelotti. Un allenatore che gli desse una maglia da titolare a centrocampo, per valorizzarne le doti tecniche e di visione che possedeva in modo eminente. I numeri non dicono tutta la verità. Ma, non mentono. 

Sta ripartendo la serie A: 13 o 20 giugno 2020?

La Bundesliga ha già ripreso da dieci giorni. La serie A è ancora in aperta fase di discussione, come si sarebbe detto in quelle patetiche assemblee degli anni '60 e '70. Certo, il periodo è difficile. La cautela è necessaria. Le preoccupazioni abitano in ciascuno di noi. Però, non c'è molto da decidere. O si gioca e allora va indicata una data, e sarebbe stato possibile indicarla, salvo correzioni in corsa, anche prima. Oppure non si gioca. Ora, stando alle ultime notizie, si dovrebbe riprendere a giugno. Il 13 o, sette giorni dopo, il 20. Giocare però, in Italia, alcune partite alle 16:30, sarebbe una grossa sciocchezza. Oltre che irrispettoso degli atleti. Mai prima delle 19:00! Per mettersi alle spalle caldo e afa. Ed anche per avere spettatori, non allo stadio, ma davanti ai televisori.

domenica 24 maggio 2020

Inter: Cavani o Icardi. I precedenti di Batistuta e Forlan

Batistuta, centravanti tremendo della Fiorentina e dell'Argentina, fu a lungo un pallino di Moratti. Che decise di portarlo all'Inter a 34 anni, un anno e mezzo dopo che Batistuta aveva regalato il terzo scudetto della sua storia alla Roma. Fu un mezzo fallimento. Perché Batistuta era logoro. Non funzionò. E ricordo Forlan, assai meno forte di Batistuta, e meno forte anche di Cavani, intendiamoci, ma che era pur sempre stato due volte capocannoniere della Liga: arrivò in un'Inter declinante, a 32 anni, recitando da comparsa. Ora si parla di Cavani all'Inter. Arriverebbe a 33 anni e mezzo. Dopo 15 anni di professionismo ai massimi livelli. E dopo un grave infortunio. Goleador magnifico, attaccante totale. Fuoriclasse. Non dico di no. Però, 33 anni e mezzo non sono 30 o 31. Lecito avere dei dubbi. Non ci giro intorno. Con tutto il rispetto per Cavani, riprenderei Icardi!

venerdì 22 maggio 2020

In morte di Gigi Simoni. La sua Inter fu amatissima

Del personaggio non aveva la vocazione né l'attitudine né la costante ispirazione. Tutto in lui, dal modo di parlare, sempre pacato al tono degli abiti, rimandava al curato di campagna. Eppure Luigi Simoni, detto Gigi, nato a Crevalcore il 22 gennaio 1939, divenne, malgré lui, il simbolo della più grande ingiustizia avvenuta su un campo di calcio, popolarissimo a causa di quella sciagurata primavera calcistica del 1998, quando, alla guida dell'Inter di Massimo Moratti e sua e di Beppe Bergomi e di Ronaldo, si vide strappare uno scudetto strameritato. E il modo ancor m'offende.

Simoni aveva masticato calcio sin da piccolo. Ed era stato calciatore di buon livello. Ala destra. Nel Mantova e nel Napoli e poi nel Torino. Persino nella Juve, per curioso scherzo del destino, chiudendo infine la carriera nel Genoa.
File:Luigi Simoni - Genoa 1893 1973-74.jpg - Wikipedia
Gigi Simoni con la maglia
del Genoa

Proprio con i rossoblu aveva intrapreso la carriera di allenatore, guidando Il Grifone a due promozioni dalla B alla A e a cinque salvezze nella massima serie, tra la metà dei '70 e la metà degli '80. Poi, era entrato in un cono d'ombra, allenando per lo più tra i cadetti, fino al ritorno al grande calcio, riportando la Cremonese in serie A e tenendocela tre anni. Nel 1996, l'approdo al Napoli. Bei risultati che convincono Moratti a regalargli la panchina dell'Inter, mentre ancora vi siede Hodgson

Nel 1997, Simoni è il tecnico dell'Inter. E dovrà allenare il miglior giocatore del mondo, Ronaldo. E con lui, davanti, Djorkaeff, Zamorano, ma anche Branca e Ganz, che presto cambieranno aria, e il giovanissimo Recoba. E ci sarebbe anche Kanu, reduce da un'operazione al cuore. Simoni è serio e preparato, abituato a suscitare il meglio dai suoi giocatori. Tra i quali ha voluto Diego Simeone, combattente argentino del centrocampo, e Moriero, ala com'era ala lui da giocatore. Restituisce a Bergomi un posto da titolare e lo vuole libero: decisione che regalerà al capitano nerazzurro il suo quarto mondiale, dopo l'esilio deciso da Sacchi.


File:FC Inter 1997-98 - Ronaldo e Luigi Simoni.jpg - Wikipedia
Gigi Simoni con Luiz Nazario da Lima, Ronaldo
Il problema è che, al netto di Ronaldo e delle attese, l'Inter stenta all'inizio. E voci di esonero si propagano ad agosto. Sarà Recoba, con il suo sinistro tonitruante, a salvare la panchina di Simoni contro il Brescia, rovesciando lo svantaggio firmato da Hubner. E tutto questo mentre tutti attendevano l'esordio con goleada di Ronaldo. Che si sblocca però la giornata successiva contro il Bologna. La squadra si compatta e diventa l'avversaria massima della Juve di Lippi. Contro cui Simoni vince all'andata. Fuga di Ronaldo sulla destra e tocco in rete di Djorkaeff a porta vuota. L'Inter si avvia a conquistare il suo quattordicesimo scudetto, rispettando la cadenza temporale dell'ultimo trentennio, uno ogni nove anni, nel 1971, nel 1980, nel 1989 e 1998. Invece no. La più maldestra, bizzarra, pacchiana e comica serie di errori arbitrali che io ricordi, toglie punti all'Inter, per darli alla Juve. Mi costerebbe troppo elencarli tutti. Certo che il gol annullato all'Empoli contro la Juve, con la palla dentro di un metro, e il celeberrimo atterramento di Ronaldo da parte di Iuliano, nella decisiva Juve-Inter del ritorno, si stagliano sugli altri per ineffabilità. In quell'ultimo caso, Simoni, il garbatissimo, elegantissimo Simoni, trascinato dallo sdegno, che è il contrario dell'ira ed invece il marchio del candore, entrò in campo, dicendo: vergogna. Fu espulso. L'Inter perse lo scudetto, conquistò la Coppa Uefa a Parigi, contro la Lazio, con un perentorio 3-0.

L'anno dopo Simoni ebbe da gestire un attacco pieno di stelle: a Ronaldo e Djiorkaeff e Zamorano e Recoba si aggiunsero Pirlo, allora trequartista, e Ventola, e sua maestà Roberto Baggio. Forse troppo. Farli giocare tutti assieme non si poteva e non si sarebbe potuto. L'Inter in Coppa dei Campioni perde nettamente all'andata al Bernabeu. Al ritorno, però, con doppietta del subentrato Baggio, il Real Madrid campione uscente viene regolato 3-1, qualificandosi ai quarti di finale. L'Inter vince anche la domenica in campionato. E Moratti, mentre Simoni ritira un premio come miglior allenatore della passata stagione, lo esonera. Perché? Mai capito, mai davvero spiegato. Moratti, anni dopo confesserà l'errore. Simoni venne poi sempre rimpianto dai tifosi nerazzurri. Per la signorilità, sì e senz'altro, per le vittorie, colte e sfumate, per l'ingiustizia del suo allontanamento, per i torti di un sistema che aveva mostrato la sua faccia feroce e ridicola proprio nel 1998. Sì, per tutto questo. Ma, anche perché seppe dare vita ad una squadra amata come poche altre nella storia dell'Inter. Per me, seconda solo a quella del 1989. Sì, ho amato l'Inter di Simoni più dell'Inter del triplete. E mi pare, nel ricordare Simoni, che non ci sia da aggiungere altro.

P.S.: andate a rivedere i minuti finali della vittoria in Coppa Uefa contro la Lazio. Sentirete Pizzul e il coro che dal Parco dei Principi si leva ritmato e solenne, accompagnando le battute finali di quel trionfo: Gigi Simoni, Gigi Simoni, Gigi Simoni...

Charly Gaul, l'arrampicatore del ciclismo

L'Angelo della Montagna doveva nascere in collina, nel Lussemburgo. Granducato la cui cima più alta è la Kneiff, 560 metri sul livello del mare. Collina per l'appunto, perché sotto la fatidica quota dei 600 metri. 


Charly Gaul nacque l'8 dicembre del 1932. E si accostò al ciclismo da ragazzo. Di corporatura esile eppure tenace, era e si definiva un peso piuma. Arrampicatore naturale, grimpeur d'elezione, correva scegliendo il rapporto più agile. Un rapporto "da maestrina" avrebbe osservato un giorno Mario Fossati, documentatissimo e acutissimo suiver. Appena esordì, Gaul venne subito accostato a Gino Bartali, allora considerato, come oggi, il più grande scalatore della storia del ciclismo. Come Bartali, Gaul scattava a ripetizione, fuori sella e diventava imprendibile. Tuttavia, se la pedalata di Bartali era potente e quasi violenta, quella di Gaul era leggera, angelicata. Come angelicato era il suo volto, al punto che Roland Barthes, critico letterario ed uno massimi intellettuali francesi negli anni '50 e '60, definì Gaul il "Rimbaud du Tour". Sì, perché ancora negli anni '50 il ciclismo lo seguivano tutti ed era più di uno sport.


File:Charly Gaul 1959 (cropped).jpg - Wikipedia
Charly Gaul, 1959
E Gaul fu protagonista al Tour de France, che vinse nel 1958, e al Giro d'Italia, che conquistò nel 1956 e nel 1959. Grandi corse a tappe che vinse da scalatore puro, come era successo a Bartali e come sarebbe accaduto a Van Impe, al Tour 1975, e a Pantani,  a Giro e Tour del 1998. Difficilissimo. Soprattutto all'epoca, quando per tante montagne c'erano altrettante cronometro, di solito pianeggianti, a favorire i grandi passisti. I Tour degli ultimi anni, quasi senza prove contro il tempo, Gaul li avrebbe vinti in serie.

La sua impresa più grande e più rammentata resta quella sul Monte Bondone, dove si concluse la ventunesima tappa del Giro d'Italia del 1956: era l'otto di giugno. Freddo polare, neve, condizioni proibitive, che tuttavia non convinsero Torriani a sospendere la corsa: sarebbe successo lo stesso 32 anni dopo sul Gavia! Gaul, che aveva un ritardo di 16 minuti dalla maglia rosa Fornara, uno capace di vincere quattro Giri della Svizzera, animò una fuga solitaria. Una fuga dal freddo. E vinse. Un trionfo omerico, mentre tanti corridori sfatti e assiderati, cercavano conforto nelle coperte e nella grappa. Ritiri e tanti arrivi fuori tempo massimo. Fu il Bondone a rivelare al mondo il talento ma anche la tempra di Charly Gaul. Prese la maglia rosa e la portò a Milano.

giovedì 21 maggio 2020

Roberto Visentini al Giro d'Italia: trionfo '86, amarezza '87. L'attacco di Roche nella tappa di Sappada

Contravveniva ad una delle regole non scritte del ciclismo, essendo di famiglia agiata. Come se avesse importanza! Roberto Visentini, classe 1957, era un corridore di moltissima classe, che ebbe un ruolo di primo piano al Giro d'Italia durante gli anni '80 e che avrebbe potuto recitare da protagonista anche al Tour de France, se soltanto non l'avesse disertato, come allora facevano i migliori ciclisti italiani da Moser a Saronni a Baronchelli. Tutti loro preferivano i ricchi ingaggi offerti dai circuiti che si organizzavano in tutta la Penisola nel mese di luglio!

Giro d'Italia 1986

Già nel 1983 aveva sfiorato il successo, Visentini, chiudendo secondo dietro il miglior Saronni di sempre. Visentini del resto, era un corridore completo, forte sul passo, abile in salita. Si rifece al Giro del 1986, l'ultimo della rivalità infinita tra Saronni e Moser. E se Moser, dopo l'inaspettato successo del 1984, era reduce dalla piazza d'onore dietro Hinault nel 1985, Saronni riemergeva da due stagioni agonisticamente buie. Proprio Saronni, grazie alla superiorità della Del Tongo nella cronosquadre, prese la maglia rosa nella terza tappa, salvo cederla per due giorni a Baronchelli, e riprenderla all'esito della Cosenza-Potenza, sesta tappa, quando vinse proprio Roberto Visentini.


Saronni correva con il piglio del leader ed inseguiva il terzo successo al Giro, che l'avrebbe appaiato a Brunero, Bartali e Gimondi. Tra i rivali, oltre Visentini, Moser e Greg LeMond, già terzo al Giro 1985 e prossimo trionfatore del Tour de France del 1986. La corsa si decise nella sedicesima tappa, da Erba a Foppolo, quando vinse lo spagnolo Pedro Munoz e Saronni perse più di due minuti da Visentini. Che avrebbe mantenuto la maglia rosa sino all'arrivo finale di Merano. Primo Visentini, secondo Saronni a 1'02", terzo Moser, a 2'14", quinto Greg LeMond a 2'26".

Giro d'Italia 1987

Nel 1987 la Carrera di Visentini era un autentico squadrone, paragonabile al team Ineos dei tempi nostri. Tutti assieme correvano Visentini, per l'appunto, l'irlandese Roche, già terzo dietro Hinault e LeMond al Tour del 1985, Guido Bontempi, ormai re dello sprint, ma anche Leali e Chiappucci, allora soltanto un gregario, e Schepers. E tutti loro erano al via del Giro d'Italia 1987.

Visentini vinse il cronoprologo di Sanremo e fu sua la prima maglia rosa. Che cedette subito a Breukink, olandese classe 1964, che proveniva anch'egli da famiglia agiata, di casa presso i Reali dei Paesi Bassi. La cronosquadre di Lido di Camaiore, vinta, ca va sans dire, dalla Carrera, mise sul trono della corsa Roche, che si era prima aggiudicato la cronometro dal Poggio a Sanremo: sì, non c'è errore, tre prove contro il tempo nello spazio di quattro giorni!

Sarebbe stata un'altra cronometro, di 46 km, da Rimini a San Marino, a restaurare il dominio di Visentini, capace d'infliggere al compagno di squadra Roche più due minuti di distacco. A quel punto, il bis di Visentini sembrava in cassaforte. Il corridore più forte, con il luogotenente più forte, quale molti ingenuamente credevano Roche, con la squadra più forte, e sul punto dubbi non ce n'erano, la Carrera. E invece no!

Nella tappa da Lido di Jesolo a Sappada, Roche mosse all'attacco della maglia rosa. E si obietterà: anche Coppi, nel 1949, nella Briancon-Aosta, attaccò con Bartali in maglia gialla e gliela portò via. Sì, ma Bartali era caduto e dolorante. E Binda, commissario tecnico della nazionale italiana, ordinò a Coppi di attaccare. Invece, in quel Giro 1987, Roche fece di testa sua. Si sentiva più forte di Visentini e disobbedì a Boifava che gli chiedeva di desistere da quell'azione. Ch'era azione d'insubordinazione. La Carrera, tolto il belga Schepers, tirò per riprendere Roche, senza riuscirci. La tappa andò a Van der Velde. Visentini accusò Roche di tradimento del patto di squadra. Polemiche feroci. Roche da lì sino alla fine in maglia rosa, cercando fuori dalla Carrera il sostegno di cui aveva bisogno in corsa, fu oggetto di dure contestazioni sulla strada. Da parte non solo dei tifosi di Visentini, ma della gran parte dei tifosi italiani.

Giro d'Italia 1987 - Wikipedia
Stephen Roche in maglia rosa
al Giro d'Italia 1987
L'irlandese avrebbe legittimato il successo nella cronometro conclusiva da Aosta a Saint-Vincent, mentre Visentini si era già ritirato per una caduta. E, in quell'anno 1987, per lui incredibile ed irripetibile, Stephen Roche avrebbe conquistato anche Tour de France e campionato del mondo! Una sbornia di vittorie che l'avrebbe convinto a non correre per tutto il 1988. La carriera di Visentini, per contro, almeno ad alti livelli, finì lì.

mercoledì 20 maggio 2020

Giro d'Italia 1976: il tris di Gimondi!

Fu, quello del 1976, il terzo Giro d'Italia conquistato da Felice Gimondi, dopo i successi del 1967 e del 1969. Un Giro lottato e sofferto, che l'asso italiano si aggiudicò per soli 19" sul belga De Muynck e 49" su Bertoglio, vincitore dell'edizione del 1975.

File:Felice Gimondi - Giro d'Italia 1976.jpg - Wikipedia
Felice Gimondi in maglia rosa
al Giro d'Italia del 1976
Parlò belga, più fiammingo che vallone, quella corsa, visti gli acuti di De Vlaeminck, che conquistò gli arrivi di Caltanissetta, Cosenza, Lago Laceno e Arosio, e le tre vittorie del velocista Patrick Sercu. Ma, si misero in luce anche De Witte e Van Linden, oltre a De Muynk, rivale di Gimondi lungo tutta la Penisola. Tanti belgi, tranne il più celebre e forte e vincente, che pure quel Giro lo correva: Eddy Merckx. Proprio il campionissimo che aveva cannibalizzato l'ultimo decennio di corse, costringendo Gimondi, suo più tenace rivale, a moltissime piazze d'onore. Merckx non seppe recitare da protagonista in quell'edizione del Giro, sebbene reduce dalla settima affermazione alla Sanremo.

Gimondi vinse il Giro nella cronometro della penultima tappa ad Arcore, strappando la maglia rosa a De Muynk, secondo. Bertoglio, terzo, il giovane Francesco Moser, quarto a 1'07", Baronchelli, quinto a 1'35". 

martedì 19 maggio 2020

I migliori discesisti del ciclismo

Sulle salite si sale, ma dalle salite si scende. Molte grandi vittorie, nella storia del ciclismo, sono state costruite in discesa, dove il talento alla guida del mezzo, la compostezza in sella, il coraggio spinto fino all'ardimento, la scelta delle traiettorie più convenienti, la capacità di trovare e ritrovare un equilibrio dentro la precarietà, tutto questo assieme ha regalato momenti agonistici indimenticabili. Propongo una classifica dei migliori discesisti della storia del ciclismo.

  1. Fiorenzo Magni (Italia)
  2. Luis Ocana (Spagna)
  3. Gastone Nencini (Italia)
  4. Ferdy Kubler (Svizzera)
  5. Paolo Savoldelli (Italia)
  6. Samuel Sanchez (Spagna)
  7. Laurent Fignon (Francia)
  8. Peter Sagan (Slovacchia)
  9. Francesco Moser (Italia)
  10. Urs Freuler (Svizzera)
  11. Julian Alaphilippe (Francia)
  12. Wout Wagtmans (Olanda)
  13. Henri Anglade (Francia)
  14. Fabian Cancellara (Svizzera)
  15. Vincenzo Nibali (Italia)
  16. Andrè Leducq (Francia)
  17. Dmitri Konyeshev (Russia)
  18. Miguel Indurain (Spagna)
  19. Italo Zilioli (Italia)
  20. Romain Bardet (Francia)

I migliori velocisti del ciclismo

Propongo una classifica dei migliori velocisti della storia del ciclismo.


  1. Rik Van Steenbergen (Belgio)
  2. Mario Cipollini (Italia)
  3. Rik Van Looy (Belgio)
  4. Miguel Poblet (Spagna)
  5. Mark Cavendish (Regno Unito)
  6. Giuseppe Saronni (Italia)
  7. Erik Zabel (Germania)
  8. Freddy Maertens (Belgio)
  9. Oscar Freire Gomez (Spagna)
  10. Alessandro Petacchi (Italia)
  11. Tom Boonen (Belgio)
  12. Peter Sagan (Slovacchia)
  13. André Greipel (Germania)
  14. Djamolidine Abdoujaparov (Uzbekistan)
  15. Robbie McEwen (Australia)
  16. Marino Basso (Italia)
  17. Jean-Paul Van Poppel (Olanda)
  18. Raffaele Di Paco (Italia)
  19. Marcel Kittel (Germania)
  20. Guido Bontempi (Italia)

I migliori scalatori del ciclismo: grimpeur e passisti scalatori

La montagna e il ciclismo, un connubio ormai indissolubile, sebbene non necessario. E non originario. Le prime corse ciclistiche, fino ai primissimi anni del 1900, ne avevano pochissima di salita. Intendo, di salita vera. Al Tour de France, le salite degne di questo nome, si videro alla terza edizione, nel 1905, con il Massiccio dei Vosgi ed un assaggio di Alpi, per esempio. Si comprese presto, tuttavia, che lo spettacolo offerto dalle arrampicate sui versanti alpini o pirenaici era unico, sia da un punto di vista naturalistico ed estetico che da un punto di vista agonistico e sportivo. Molta storia ciclistica, soprattutto nelle corse a tappe, si è scritta in salita. Propongo una classifica dei migliori scalatori del ciclismo, distinguendo tra grimpeur, scalatori puri, e passisti scalatori. Scattisti gli uni, capaci di costanti progressioni i secondi. Proporrò anche una classifica dei migliori cronoman, dei migliori velocisti e dei migliori discesisti.


I Grimpeur
  1. Gino Bartali (Italia)
  2. Charly Gaul (Lussemburgo)
  3. Marco Pantani (Italia)
  4. Federico Bahamontes (Spagna)
  5. Lucien Van Impe (Belgio)
  6. José Manuel Fuente (Spagna)
  7. Julio Jimenez Munoz (Spagna)
  8. Lucho Herrera (Colombia)
  9. Vicente Trueba(Spagna)
  10. Nairo Quintana (Colombia)
  11. Raymond Poulidor (Francia)
  12. Alejandro Valverde (Spagna)
  13. Thibaut Pinot (Francia)
  14. Roberto Heras (Spagna)
  15. René Vietto (Francia)
  16. Richard Virenque (Francia)
  17. Claudio Chiappucci (Italia)
  18. Joaquim Rodriguez (Spagna)
  19. Steven Rooks (Olanda)
  20. Imerio Massignan (Italia)
I Passisti/Scalatori
  1. Fausto Coppi (Italia)
  2. Eddy Merckx (Belgio)
  3. Bernard Hinault (Francia)
  4. Alfredo Binda (Italia)
  5. Alberto Contador (Spagna)
  6. Chris Froome (Inghilterra)
  7. Luison Bobet (Francia)
  8. Felice Gimondi (Italia)
  9. Luis Ocana (Spagna)
  10. Pedro Delgado (Spagna)
  11. Gianni Bugno (Italia)
  12. Laurent Fignon (Francia)
  13. Greg LeMond (USA)
  14. Miguel Indurain (Spagna)
  15. Jacques Anquetil (Francia)
  16. Costante Girardengo (Italia)
  17. Joop Zootemelk (Italia)
  18. Vincenzo Nibali (Italia)
  19. Bernard Thevenet (Francia)
  20. Tony Rominger (Svizzera)

lunedì 18 maggio 2020

Tour de France 1920: l'ultimo sigillo del belga Thys

Si è tanto discusso, e giustamente, dei successi che la Seconda Guerra tolse a Coppi e, soprattutto, a Bartali. Ma, quante vittorie, la Grande Guerra del '14-'18 tolse al corridore belga Philippe Thys? Parliamo di un campione assoluto, che si era aggiudicato le edizioni del Tour de France del 1913 e del 1914. Alla ripresa, nel 1919, fu costretto al ritiro durante la prima tappa.


Nel 1920, vinse il suo terzo Tour, il primo a riuscirci nella storia della Gran Boucle: un primato che avrebbe detenuto da solo fino al tris di Luison Bobet nel 1955 e prima di essere, più avanti, superato da Anquetil, Merckx, Hinault e Indurain.


Nell'edizione del 1920, Thys prese la maglia gialla nella seconda tappa da Le Havre a Cherbourg e la tenne fino a Parigi, forte di quattro successi parziali. Precedette il connazionale Heusghem di quasi un'ora. Nove, sui primi dieci della classifica generale, furono belgi. Un dominio pressoché assoluto, mai più ripetuto. E pensare che, dal 1978, nessun corridore belga sale più sul podio di una grande corsa a tappe!

Dopo di allora, Thys, ormai trentenne, non seppe più ripetersi. Nel 1925, come gregario di Ottavio Bottecchia nell'Automoto, corse il suo ultimo Tour, ritirandosi nella nona tappa. 

Mats Wilander: il campione schivo del tennis

"...di Borg, il giovane Mats era una sorta di clone, soprattutto per la regolarità e la resistenza..." (Gianni Clerici, "500 anni di tennis")
Predestinato ad una grande carriera, senza dubbio. Basti pensare che il suo primo torneo vinto da professionista fu il Roland Garros, nel 1982, quando doveva ancora compiere 18 anni. Mats Wilander, svedese di Vaxio, sconfisse in finale un veterano come l'argentino Guillermo Vilas. E subito i pensieri corsero a Borg, il dominatore del tennis mondiale, ritiratosi per noia (?) un anno prima. Solo che Wilander a Borg somigliava fino ad un certo punto. Se ne possedeva le qualità atletiche eccezionali, la freddezza nel gioco, la prevalenza da fondo campo e la resistenza alla fatica, non era però animato dalla medesima voglia di vincere, portava i capelli, ricci, piuttosto corti e non era minimamente adatto a diventare il personaggio ch'era stato il più illustre connazionale, che aveva tolto il tennis dall'atmosfera rarefatta e pitigrilliana dei circoli, per farne fenomeno di massa.


Dopo il successo sulla terra rossa parigina del 1982, Wilander seguitò a vincere un po' ovunque. Anche sul cemento di Cincinnati. E sull'erba. Non a Wimbledon, ma a Melbourne, quando lo Slam australiano era ancora sui prati e chiudeva la stagione agonistica. Nel 1983, battendo in finale Ivan Lendl e nel 1984, superando Kevin Kurren. Al Roland Garros sarebbe tornato ad imporsi, a quasi 21 anni, nel 1985, sempre contro Lendl, mentre aveva perduto, nel 1983 in finale da Yannick Noah. Wilander è solidissimo, impossibile batterlo al quinto set, ma il suo gioco non entusiasma. Sebbene abbia abbandonato il rovescio bimane in fase d'attacco, quando stacca la sinistra e si porta rete, dove l'esperienza nel doppio ha migliorato di molto il suo gioco di volo. Nel frattempo, è salito alla ribalta un altro svedese, dal tennis classico ed elegante, Stephan Edberg, che, insieme all'aitante tedesco Boris Becker, animerà una delle più belle e lottate rivalità a Wimbledon. Ecco, proprio Wimbledon resterà sempre inaccessibile a Wilander, che lì mai saprà spingersi oltre i quarti di finale. Gli anni 1986 e 1987, sono per Wilander meno vincenti che in passato. Lendl, che lo supera a Parigi e New York nel 1987, è l'indiscusso numero uno al mondo, Becker ed Egberg dividono il tifo, McEnroe vive un precoce declino. Wilander vince ancora Cincinnati e a Roma, ma, complice anche un temperamento quanto mai schivo e riservato, pare entrare in un cono d'ombra. Sembra.

Nel 1988, Wilander torna a vincere una prova Slam. Il suo terzo Australian Open, ora sul cemento, a gennaio, e contro l'idolo di casa, Pat Cash. A giugno, a Parigi, il capolavoro della sua carriera. Prevale in finale sulla sua antitesi tennistica, il mancino d'attacco, Henri Leconte, anch'egli beniamino di casa. Agli Us Open, perché Wimbledon resta stregato, batte per l'ennesima volta Lendl: tre titoli Slam in un anno e primo posto della classifica mondiale, strappato proprio all'impassibile cecoslovacco naturalizzato americano. Resterà ai vertici Atp per cinque mesi, Wilander. Ma, la sua testa ha già svoltato. D'un tratto la voglia di tennis, dei sacrifici legati al tennis, l'abbandona. Di lì a fine carriera, vincerà solo altri due tornei: Palermo, 1988, Itaparica 1990. Per ritirarsi, di fatto, nel 1991. Tornare in campo nel 1993 e fino al 1995. Senza più essere davvero competitivo. Ed ecco che la sua storia torna a somigliare a quella di Borg. Che all'apice del successo, si era sentito svuotato, mollando tutto. Chiuderà con sette titoli dello Slam in undici finali disputate.

domenica 17 maggio 2020

La biografia di Chiellini fa chiasso. Ma fino a Chiasso

Non posso fare la recensione di un libro che non leggerò. E poi sono uscite tante anticipazioni della biografia di Giorgio Chiellini, capitano della Juve. Le polemiche con Melo e Balotelli, il suo odio per l'Inter. E le sue idee sul calcio, sugli allenatori. Non entro nel merito. E c'è da aggiungere che il libro ha già ricevuto tante attenzioni, ha già fatto molto chiasso. Ma fino a Chiasso. Anzi un poco prima. Perché la carriera di Chiellini è stata tutta italiana. Ha vinto solo in Italia. Mai una Coppa Europea. Due eliminazioni al primo turno ai mondiali e persino una mancata qualificazione ai mondiali. Si dirà. Ma è stato secondo con l'Italia agli Europei del 2012. Sì, in finale, mentre era infortunato, lo aveva condotto proprio Balotelli, con la doppietta in semifinale alla Germania.  In finale poi, Chiellini fu espulso dopo mezz'ora. C'è da capirlo. Si giocava oltre il confine.