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lunedì 18 maggio 2020

Tour de France 1920: l'ultimo sigillo del belga Thys

Si è tanto discusso, e giustamente, dei successi che la Seconda Guerra tolse a Coppi e, soprattutto, a Bartali. Ma, quante vittorie, la Grande Guerra del '14-'18 tolse al corridore belga Philippe Thys? Parliamo di un campione assoluto, che si era aggiudicato le edizioni del Tour de France del 1913 e del 1914. Alla ripresa, nel 1919, fu costretto al ritiro durante la prima tappa.


Nel 1920, vinse il suo terzo Tour, il primo a riuscirci nella storia della Gran Boucle: un primato che avrebbe detenuto da solo fino al tris di Luison Bobet nel 1955 e prima di essere, più avanti, superato da Anquetil, Merckx, Hinault e Indurain.


Nell'edizione del 1920, Thys prese la maglia gialla nella seconda tappa da Le Havre a Cherbourg e la tenne fino a Parigi, forte di quattro successi parziali. Precedette il connazionale Heusghem di quasi un'ora. Nove, sui primi dieci della classifica generale, furono belgi. Un dominio pressoché assoluto, mai più ripetuto. E pensare che, dal 1978, nessun corridore belga sale più sul podio di una grande corsa a tappe!

Dopo di allora, Thys, ormai trentenne, non seppe più ripetersi. Nel 1925, come gregario di Ottavio Bottecchia nell'Automoto, corse il suo ultimo Tour, ritirandosi nella nona tappa. 

Mats Wilander: il campione schivo del tennis

"...di Borg, il giovane Mats era una sorta di clone, soprattutto per la regolarità e la resistenza..." (Gianni Clerici, "500 anni di tennis")
Predestinato ad una grande carriera, senza dubbio. Basti pensare che il suo primo torneo vinto da professionista fu il Roland Garros, nel 1982, quando doveva ancora compiere 18 anni. Mats Wilander, svedese di Vaxio, sconfisse in finale un veterano come l'argentino Guillermo Vilas. E subito i pensieri corsero a Borg, il dominatore del tennis mondiale, ritiratosi per noia (?) un anno prima. Solo che Wilander a Borg somigliava fino ad un certo punto. Se ne possedeva le qualità atletiche eccezionali, la freddezza nel gioco, la prevalenza da fondo campo e la resistenza alla fatica, non era però animato dalla medesima voglia di vincere, portava i capelli, ricci, piuttosto corti e non era minimamente adatto a diventare il personaggio ch'era stato il più illustre connazionale, che aveva tolto il tennis dall'atmosfera rarefatta e pitigrilliana dei circoli, per farne fenomeno di massa.


Dopo il successo sulla terra rossa parigina del 1982, Wilander seguitò a vincere un po' ovunque. Anche sul cemento di Cincinnati. E sull'erba. Non a Wimbledon, ma a Melbourne, quando lo Slam australiano era ancora sui prati e chiudeva la stagione agonistica. Nel 1983, battendo in finale Ivan Lendl e nel 1984, superando Kevin Kurren. Al Roland Garros sarebbe tornato ad imporsi, a quasi 21 anni, nel 1985, sempre contro Lendl, mentre aveva perduto, nel 1983 in finale da Yannick Noah. Wilander è solidissimo, impossibile batterlo al quinto set, ma il suo gioco non entusiasma. Sebbene abbia abbandonato il rovescio bimane in fase d'attacco, quando stacca la sinistra e si porta rete, dove l'esperienza nel doppio ha migliorato di molto il suo gioco di volo. Nel frattempo, è salito alla ribalta un altro svedese, dal tennis classico ed elegante, Stephan Edberg, che, insieme all'aitante tedesco Boris Becker, animerà una delle più belle e lottate rivalità a Wimbledon. Ecco, proprio Wimbledon resterà sempre inaccessibile a Wilander, che lì mai saprà spingersi oltre i quarti di finale. Gli anni 1986 e 1987, sono per Wilander meno vincenti che in passato. Lendl, che lo supera a Parigi e New York nel 1987, è l'indiscusso numero uno al mondo, Becker ed Egberg dividono il tifo, McEnroe vive un precoce declino. Wilander vince ancora Cincinnati e a Roma, ma, complice anche un temperamento quanto mai schivo e riservato, pare entrare in un cono d'ombra. Sembra.

Nel 1988, Wilander torna a vincere una prova Slam. Il suo terzo Australian Open, ora sul cemento, a gennaio, e contro l'idolo di casa, Pat Cash. A giugno, a Parigi, il capolavoro della sua carriera. Prevale in finale sulla sua antitesi tennistica, il mancino d'attacco, Henri Leconte, anch'egli beniamino di casa. Agli Us Open, perché Wimbledon resta stregato, batte per l'ennesima volta Lendl: tre titoli Slam in un anno e primo posto della classifica mondiale, strappato proprio all'impassibile cecoslovacco naturalizzato americano. Resterà ai vertici Atp per cinque mesi, Wilander. Ma, la sua testa ha già svoltato. D'un tratto la voglia di tennis, dei sacrifici legati al tennis, l'abbandona. Di lì a fine carriera, vincerà solo altri due tornei: Palermo, 1988, Itaparica 1990. Per ritirarsi, di fatto, nel 1991. Tornare in campo nel 1993 e fino al 1995. Senza più essere davvero competitivo. Ed ecco che la sua storia torna a somigliare a quella di Borg. Che all'apice del successo, si era sentito svuotato, mollando tutto. Chiuderà con sette titoli dello Slam in undici finali disputate.

domenica 17 maggio 2020

La biografia di Chiellini fa chiasso. Ma fino a Chiasso

Non posso fare la recensione di un libro che non leggerò. E poi sono uscite tante anticipazioni della biografia di Giorgio Chiellini, capitano della Juve. Le polemiche con Melo e Balotelli, il suo odio per l'Inter. E le sue idee sul calcio, sugli allenatori. Non entro nel merito. E c'è da aggiungere che il libro ha già ricevuto tante attenzioni, ha già fatto molto chiasso. Ma fino a Chiasso. Anzi un poco prima. Perché la carriera di Chiellini è stata tutta italiana. Ha vinto solo in Italia. Mai una Coppa Europea. Due eliminazioni al primo turno ai mondiali e persino una mancata qualificazione ai mondiali. Si dirà. Ma è stato secondo con l'Italia agli Europei del 2012. Sì, in finale, mentre era infortunato, lo aveva condotto proprio Balotelli, con la doppietta in semifinale alla Germania.  In finale poi, Chiellini fu espulso dopo mezz'ora. C'è da capirlo. Si giocava oltre il confine.

venerdì 15 maggio 2020

Italia-Francia 6-2: 15 maggio 1910, prima partita della nazionale italiana

Sono passati 110 anni. La Belle Epoque era al tramonto, cui avrebbe contribuito anche la guerra che l'Italia, un anno dopo, avrebbe dichiarato alla Turchia per la conquista della Libia. Preannuncio dell'immane conflitto che stava per scatenarsi in Europa. Presidente del Consiglio era Luzzatti, ma il dominus della politica italiana restava Giovanni Giolitti. Allo Stadio Civico Arena di Milano, il 15 maggio del 1910, alle ore 15:30, ci fu il debutto della nazionale italiana di calcio contro la Francia, davanti a poco meno, o poco più, di 4.000 spettatori. Il calcio era ancora un gioco praticato da pochissimi amatori, quasi sconosciuto nel Mezzogiorno, per niente popolare, dacché lo sarebbe diventato solo nel primo dopoguerra. Ed era un calcio confuso e confusionario, che ancora andava dietro alla Piramide di Cambridge: grosso modo tutti all'attacco, continui uno contro uno, assembramenti - allora non vietati! - e contrasti dozzinali, campanili e rinvii strampalati. Alcuni calciatori provenivano dalla ginnastica, dai quadri svedesi e dalla parallele asimmetriche. L'Italia era allenata da Umberto Meazza, solo omonimo del magnifico Giuseppe Meazza, che sarebbe nato, sempre a Milano, di lì a pochi mesi. La selezione dei giocatori era affidata ad una commissione tecnica federale. L'Italia vinse 6-2. Fu soltanto l'inizio.


File:Italy football team 1910.jpg - Wikipedia
Nazionale Italiana al debutto, 15 maggio 1910

ITALIA: De Simoni (U.S. Milanese), Varisco (U.S. Milanese), Calì (Doria) (cap.), Trerè (Ausonia), Fossati (Inter), Capello D. (Torino), Debernardi (Torino), Rizzi (Ausonia), Cevenini I (Milan), Lana (Milan), Boiocchi (U.S. Milanese). Commissione tecnica federale. All.: U. Meazza.

FRANCIA: Tessier, Mercier, Sollier, Rigal, Ducret, Vascout, Mouton, Sellier, Bellocq, Ollivier, Jourde (cap.). Commissione tecnica interfederale.

Reti: 13' Lana, 20' Fossati, 49' Sellier, 59' Lana, 62' Ducret, 66' Rizzi, 82' Debernardi, 89' Lana rigore.

giovedì 14 maggio 2020

La serie A riparte il 13 giugno? Forse, pare, Covid permettendo

Ora, si parla del 13 giugno 2020, per la ripartenza del campionato di calcio di serie A. Non v'è la minima certezza. Che, del resto, manca in ogni altro ambito, in Italia, il più grande periodo ipotetico dell'Occidente.

Giro d'Italia 1974: 1. Merckx 2. Baronchelli 3. Gimondi. Il secondo minor distacco nella storia del Giro: Baronchelli perse per 12"

"Io ho sempre corso per vincere e basta" (Eddy Merckx in un'intervista data a Cheo Condina, il manifesto, 13 marzo 2004)
Una delle edizioni più avvincenti e lottate del Giro d'Italia fu quella del 1974. La prima maglia rosa fu del belga Reibrouck, che vinse la tappa d'avvio dal Vaticano a Formia. Alla terza tappa, il simbolo del primato passò sulle spalle del grande scalatore spagnolo Fuente, che s'impose sul traguardo di Sorrento. Merckx, Gimondi e il giovane Baronchelli, 21 anni da compiere, erano i più immediati inseguitori del grimpeur iberico, che riuscì ad aggiudicarsi altre due tappe, tra le Marche e l'Emilia.
File:Gianbattista Baronchelli.JPG - Wikipedia
Gianbattista Baronchelli

Merckx si riavvicinò, dominando la cronometro di Forte dei Marmi. Poi, la quattordicesima tappa, con arrivo a Sanremo. Fuente commise uno degli errori che i corridori più sottovalutano e che, spesso, si rivelano esiziali: si alimentò poco o male o poco e male. Insomma, crisi di fame e dieci minuti di ritardo. Che Fuente non avrebbe saputo più recuperare, nonostante la superiorità in salita. Merckx ne avrebbe respinto gli assalti con una difesa ad oltranza, cui era poco abituato dai suoi "mille" successi, ma tenne. Soprattutto su Le Tre Cime di Lavaredo, arrivo che l'aveva lanciato sulle strade italiane nel 1968, e dove rischiò di perdere il suo quinto Giro per l'attacco di Fuente, che vinse la tappa, e di Baronchelli. A Milano, primo Merckx, secondo Baronchelli ad appena 12", terzo Gimondi a 33". Fuente, a dispetto di cinque vittorie di tappa, sarebbe stato solo quinto in classifica generale, dovendosi accontentare della maglia verde di miglior scalatore, introdotta quell'anno. Tutto per aver mangiato poco verso Sanremo.


Eddy Merckx - Wikipedia
Eddy Merckx in maglia rosa
Quello tra Merckx e Baronchelli fu il secondo minor distacco tra i primi due della classifica nella storia del Giro d'Italia, dopo gli 11" che nel 1948 regalarono a Fiorenzo Magni il suo primo Giro, davanti a Cecchi. Nel 1995, sempre Magni avrebbe impedito a Coppi la vittoria del sesto Giro per 13". Nel 2012, Joaquim Rodriguez avrebbe perso da Hesjedal per soli 16".

martedì 12 maggio 2020

Giro d'Italia 1988: Hampsten e la tempesta sul Gavia. L'impresa mancata di Johan Van der Velde

"Vidi Van der Velde passare su con le maniche corte, come era partito, con la neve sui capelli" (Claudio Gregori, intervista concessa a Roberto Cauz e Riccardo Spinelli, "Chissà che l'utopia non vinca")
Il Giro d'Italia del 1988 fu una corsa in bianco e nero, perché il 5 giugno, durante la quattordicesima tappa verso Bormio, sul Passo del Gavia, una tempesta da romanzo gotico si abbatté sulla corsa. Mai vista tanta neve nel mese di giugno. Freddo glaciale. Corridori assiderati. Moltissimi costretti al ritiro. Le lancette dell'orologio del ciclismo volarono indietro a ritmo impensato. Distacchi come negli anni '30, tanti finirono fuori tempo massimo. Quel giorno, un americano, Hamspten, vestì la maglia rosa, per tenerla sino a Milano.

File:Gavia1998.jpg - Wikipedia
Gavia, Giro d'Italia 1988
Facciamo un passo indietro. Alla vigilia, si annunciava un grande Giro. Al via, i favoriti erano Visentini, vincitore nel 1986, protagonista del litigio di squadra con Roche nel 1987, lo spagnolo Pedro Delgado, già vincitore di una Vuelta e secondo al Tour dell'anno prima, e poi l'irlandese polivalente Sean Kelly, l'olandese Breukink e, soprattutto, il francese Jean-Francois Bernard. Che agli osservatori pareva il più talentuoso ed era in rampa di lancio dopo il terzo posto colto al Tour del 1987. E Bernard fu la prima maglia rosa, indossata dopo il successo nel cronoprologo di Urbino, cui sarebbero seguite altre due affermazioni  parziali in quel Giro. A sfilare la maglia rosa al francese, alla quarta tappa, fu un gregario di fondo, Massimo Podenzana dopo una lunga fuga conclusa sul traguardo di Rodi Garganico. L'avrebbe tenuta nove giorni. L'acuto della sua carriera. Prima di vincere due campionati italiani e di finire settimo al Giro del 1994. Sulla salita di Campitello Matese, successo di Chioccioli, che, nel volto e solo nel volto, somigliava a Fausto Coppi, e perciò era detto Coppino. Chioccioli correva nella Del Tongo capitanata da Saronni. Alla vigilia della tappa del Gavia, Chiccioli era primo, Saronni nono.

File:Jean-François BERNARD.jpg - Wikimedia Commons
Jean-Francois Bernard
Poi, il Gavia. I corridori, quel giorno, dovettero provare le stesse sensazioni avvertite da Octave Lapize sul Tourmalet, nel Tour de France del 1910. Sofferenza assoluta, sforzo innaturale. Sul Gavia passa per primo, da solo, Johan Van der Velde, in maglia ciclamino. La neve sta cadendo sempre più copiosa mentre l'olandese si avvicina al gran premio della montagna. Inizia la discesa verso Bormio e non si copre: errore tremendo. Sarà un calvario per lui. E per tanti altri. Parte la corsa alle mantelline, ma nulla servirebbe come un giornale, più giornali da mettere sotto la maglietta. Terremoto in classifica. Sono i più magri, ma i ciclisti sono tutti magri, a patire di più. Saronni e Visentini persero mezz'ora. Bernard, lì finì la sua carriera nelle grandi corse a tappe, poco meno di dieci minuti. Van der Velde, che aveva dovuto fermarsi in camper e poi ripartire per un principio di congelamento, arrivò anche dopo. Il successo di tappa andò a Breukink, olandese assiduo frequentatore della casa reale. Polemiche si abbattono sull'organizzazione della corsa e sulla decisione di Torriani di non neutralizzare la tappa. Andy Hampsten, si diceva, prese la maglia rosa, legittimandola con il successo nella cronoscalata del Valico del Vetriolo. A Milano, vittoria di Hampsten, primo statunitense a vincere il Giro, secondo Breukink a 1'43", terzo lo svizzero Zimmermann a 2'45". Nessun italiano sul podio: quarto Giupponi, quinto Chioccioli, sesto Giovannetti.

Fu il secondo anno consecutivo senza italiani sul podio della corsa della Gazzetta: nel 1987 aveva vinto Roche, su Millar e Breukink. Era accaduto anche nel 1972, con Merckx primo, Fuente secondo e Galdòs terzo, sarebbe successo di nuovo nel 1995, con vittoria di Rominger su Berzin e Ugrjumov, nel 2012, con Hesjedal, Joaquim Rodriguez e De Gendt e nel 2018, con Froome, Tom Dumoulin e Miguel Angel Lopez. Sei volte in 102 edizioni!

lunedì 11 maggio 2020

Giro d'Italia 1980: il trionfo di Hinault, le sette tappe di Saronni

"La differenza  fra martire ed eroe è minima, un colpo di vento, la sfortuna. Io non voglio essere martire". (Bernard Hinault)
Quando, nel 1980, il bretone Bernard Hinault, detto Il Tasso, approdò al Giro d'Italia, nel suo palmares figuravano già una Vuelta a Espana e due Tour de France. L'Italia aveva un'agguerrita schiera di pretendenti alla maglia rosa finale, guidata da Saronni e Moser, rispettivamente primo e secondo nel Giro del 1979. E oltre a loro Baronchelli e il giovane Visentini, Panizza e Battaglin. Hinault era reduce dai freschi successi alla Liegi-Bastogne-Liegi e al Giro di Romandia.
Giro d'Italia ´82 | Tommy Prim, Bernard hinault, Lucien van ...
Bernard Hinault, al Giro del 1982 (che pure avrebbe vinto)
Cronoprologo a Moser, prima maglia rosa a Genova. Hinault s'impossessò del simbolo del primato a Pisa, dopo la seconda prova contro il tempo del Giro. Saronni uscì presto di classifica, avrebbe comunque chiuso al settimo posto e, quel che più conta, avrebbe vinto sette tappe! Impresa alla Binda o alla Guerra degli anni eroici del ciclismo. Nella settima tappa, ad Orvieto, acuto di Visentini, che strappò la maglia rosa ad Hinault, tenendola fino a Roccaraso, dove al successo parziale dell'asso francese fece seguito il primato in classifica dello scalatore Wladimiro Panizza, sempreverde dopo 35 primavere e tredici anni di carriera! Eppure Hinault già correva da padrone. A 26 anni mostrava, alla prima esperienza al Giro, la sicurezza del veterano. Scortato da un luogotenente d'eccezione, il connazionale Bernaudeau, uno spesso tra i primi dieci tra Tour e Vuelta. Proprio Bernaudeau avrebbe vinto la Cles-Sondrio, dopo fuga avviata per propiziare l'attacco di Hinault sullo Stelvio: strategia vincente. Hinault sfilò la maglia rosa a Panizza e la tenne fino a Milano. Primo Hinault, secondo Panizza a 5'43", terzo Battaglin a 6'30".
File:Wladimiro Panizza - Tour 1976.jpg - Wikimedia Commons
Waldimiro Panizza al Tour de France del 1976
Bernard Hinault avrebbe vinto altri due Giri d'Italia, in tutto tre in tre partecipazioni, nel 1982 e nel 1985, un'altra Vuelta e altri tre Tour de France: dieci grandi corse a tappe, solo una meno di Eddy Merckx! Ma fu anche dominatore di classiche. Persino della Parigi-Roubaix, che pure detestava, ritenendola un'anacronistica via crucis. Diceva di sé di essere prima bretone e poi francese. Fu amato, in Francia, meno di Anquetil, molto meno di Poulidor. Ma, i francesi hanno graduatorie di affetto tutte loro.

venerdì 8 maggio 2020

Tour de France 1960: 1. Nencini 2. Battistini 3. Adriaenssens. La terribile caduta di Rivière

Il Tour de France 1960 si corse tra il 26 di giugno e il 17 di luglio. In Italia, governava, in mezzo a mille tensioni, il Governo presieduto da Tambroni. Nei jukebox si suonavano i successi di Gino Paoli, La Gatta e Il cielo in una stanza, interpretato da Mina, ma anche Marina dell'italobelga Rocco Granata, Il nostro concerto di Umberto Bindi, Personalità di Caterina Valente. Da mesi, nelle sale cinematografiche della Penisola, si proietta la Dolce Vita di Federico Fellini, film destinato a diventare il manifesto di una delle epoche più spensierate, e frivole, della nostra storia.
File:Dolce vita.gif - Wikipedia
Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, La dolce vita


Siamo nel pieno del boom economico. Il ciclismo italiano è ripartito, per la prima volta dopo un ventennio, non solo senza Bartali, ritiratosi sei anni prima, ma anche senza Coppi, scomparso nel mese di gennaio a causa di una malaria curata male. Le speranze azzurre si appuntano su Baldini, già declinante, e Nencini, vincitore del Giro d'Italia del 1957 e secondo proprio nel 1960, dietro al campionissimo francese Anquetil, che l'ha battuto per soli 28", grazie alla superiorità mostrata nelle prove contro il tempo.
File:Gastone Nencini 1960.jpg - Wikipedia
Gastone Nencini


Al Tour, Gastone Nencini, detto il Leone del Mugello, si presenta in forma e motivato e cerca un pronto riscatto alla delusione patita al Giro. L'assenza di Anquetil rende incerto il pronostico. Gastone Nencini s'impossessa della maglia gialla dopo la seconda tappa. La perde alla quarta e la riconquista a Pau, Pirenei Atlantici, traguardo della decima frazione, dove s'impone il francese Roger Rivière. Con il quale inizia un serrato testa a testa. Riviere è più forte in salita. E Nencini, magnifico discesista degno di Magni, fugge nella quattordicesima tappa, in discesa. Rivière, all'inseguimento, cade rovinosamente in dirupo, fratture multiple alla colonna vertebrale. Una tragedia e carriera tristemente interrotta a soli 24 anni: sarebbe rimasto paralizzato alle gambe. Nencini manterrà la maglia gialla fino a Parigi, pur senza ottenere vittorie di tappa. Il giorno del trionfo il suo pensiero correrà allo sfortunato rivale. Secondo, dietro di lui, un altro azzurro, Graziano Battistini, alla sua prova migliore in una corsa a tappe, e vincitore sui traguardi di Angers e Briancon, terzo il belga Adriaenssens. Da registrare anche il settimo posto di Pambianco e il decimo dello scalatore Massignan. Un trionfo italiano sulle strade della Grande Boucle.

Nencini e Rivière i grandi duellanti del Tour del 1960 saranno accomunati da una precoce dipartita. Rivière nel 1976, a 40 anni, Nencini, nel 1980, a 50 anni.