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lunedì 4 settembre 2017

Campioni dimenticati: Ricardo Bochini, il dieci, l'idolo di Maradona

Il numero dieci. La massima potenza evocativa di un numero nel gioco del calcio. Anni fa proposi una classifica dei migliori numeri dieci della storia. E dimenticai Ricardo Bochini. Faccio ammenda e rimedio. Fu l'idolo del giovane Maradona. A lungo ostracizzato dalla nazionale argentina, peraltro sempre ricca di talenti. A quei tempi, parliamo soprattutto degli anni '70, le redini della nazionale albiceleste erano affidate al prestigiatore Ardiles. Epperò Bochini, per volontà del capo, Maradona s'intende, fu aggregato alla nazionale campione del mondo in Messico, nel 1986. Ed entrò in campo a tre minuti dalla fine della vittoriosa semifinale contro il Belgio. Maradona aveva segnato una doppietta epocale. Ed accolse in campo Bochini con un: maestro. Lento, lentissimo, Bochini, mai rientrato a contrastare, mai staccato di testa, gol sì, ma meno di quanti avrebbe potuto segnarne. Di fatto ambidestro, lucidissimo direttore d'orchestra, esploratore di traiettorie di passaggio, che poi solo Riquelme - che però aveva un fisico statuario - altro argentino incompreso ma grandissimo, avrebbe frequentato. Giocò per anni nell'Independiente. E vinse tantissimo. Anche la Coppa Intercontinentale. Due volte. La prima nel 1973, contro la Juve, che la giocò per il rifiuto dell'Ajax. Ma vinse anche due campionati argentini, quattro Coppe Libertadores! Al contrasto, Bochini non ci andava. Non ne aveva bisogno, dando via il pallone sempre un momento prima, sempre al momento giusto. Come poi vidi fare spesso a Platini. Nessun agonismo, epperò il gioco lo comandava Bochini. Palla al piede, grazie a finte uniche, gli avversari li saltava eccome. Di palloni ne giocava tantissimi. Senza sbagliare. Tocco, tocco e ancora tocco. Uno degli ultimi rappresentanti, Bochini, classe 1954, del calcio a ritmo di tango, mentre infuriava la rivoluzione olandese, s'imponeva la prestanza atletica, la velocità, ma pure la confusione. Oggi, però lontano dai livelli di eccellenza che Bochini raggiunse, gioca un poco a quella maniera Borja Valero. Solo più dietro. Mentre Bochini, nella propria metà campo ci capitava poco. E per sbaglio. Il numero dieci.

lunedì 13 febbraio 2017

I 50 anni di Roberto Baggio. Cinque ragioni per ricordarlo

Il più grande giocatore della storia del calcio italiano, dopo Meazza e prima di Totti. Roberto Baggio, artista prima che calciatore, compirà 50 anni il prossimo 18 febbraio. Ecco cinque ragioni per ricordarlo e celebrarlo.

  1. Il dribbling: un fondamentale, che non si allena o che si allena poco. Baggio ne è stato un virtuoso naturale. Grazie alla sapienza innata del tocco, alla padronanza del palleggio, alle finte di corpo ed allo scatto fulmineo. Aveva non solo il primo, ma anche il secondo ed il terzo, qualche volta il quarto dribbling. Come oggi solo Messi. E prima di lui, Meazza, Di  Stefano, Garrincha, Pelé, Sivori, Sandro Mazzola, Cruijff, Best,  Zico e poi Ronaldo, il brasiliano. Me ne dimentico pochi. 
  2. Il senso del gol: 318 gol da professionista, sesto italiano assoluto, dopo Piola, 364 gol, Del Piero, 346 gol, Meazza 338 gol, Totti, 323 gol e Toni, 322 gol. Roberto Baggio ha segnato in tutti i modi, persino di testa ogni tanto, grazie alla precisione chirurgica del tiro, spesso eseguito in anticipo, prendendo il portiere in contropiede. Di destro e di sinistro, in area e fuori dall'area, quasi mai di forza, sempre con eleganza. E tanti gol nelle occasioni solenni, 9 ai mondiali, come Paolo Rossi e Vieri, il quale ultimo, però, segnò solo un gol, contro la Norvegia nel '98, nelle gare ad eliminazione diretta. Baggio, invece, trascinò letteralmente la triste Italia di Sacchi alla finale di Usa '94, perduta ai rigori contro il Brasile. L'errore di Baggio dal dischetto, un dispetto di un destino saragattianamente cinico e baro, fece il giro del mondo. Ma, senza di lui, quell'avventura azzurra sarebbe terminata molto prima.
  3. Il gioco contro tempo: fateci caso, la maggior parte dei calciatori, approssimandosi la porta, accelera, aumenta la frequenza dei passi, si fa frenetica. Baggio, no. Alla vista del portiere, più spesso, rallentava. Aspettava il difensore farglisi sotto e poi, dribbling a rientrare, con il destro od il sinistro, e tiro all'angolo con il piede opposto. Questo incedere caracollante, quasi esitante ed invece colmo di forza consapevole, a Brera, che lo vide nei primi anni di carriera, ricordava il grande Meazza.
  4. L'invidia degli allenatori: sebbene Baggio non avesse il piglio del comando, per tutta la carriera, e forse con la sola eccezione di Mazzone al Brescia, fu sofferto moltissimo dagli allenatori. Su tutti Lippi, che lo mandò via dalla Juve e gli preferì persino Russo all'Inter, e Capello, che lo sostituiva con immancabile puntualità. Ma, anche Ulivieri a Bologna, dove Baggio risorse, 22 gol all'esito di un campionato che lo condusse al suo terzo mondiale, quello di Francia '98. E perché? Perché Baggio, asso naturale, riusciva, quasi senza volerlo, a dimostrare la superiorità del singolo sul gruppo, dell'estro sullo spartito, dell'assolo sulla sinfonia, del guizzo sulla tattica. Sacchi, che ne trasse immensi benefici in nazionale, ancora oggi, trova modo e maniera di punzecchiare Baggio. E solo perché costui si era opposto alla monacazione forzata nei suoi schemi.
  5. L'individualismo ai tempi della mistica del gruppo: Gramsci scrisse che "i più non esistono fuori dell'organizzazione". E tutto sommato è vero. Ecco, Roberto Baggio nel novero dei più non c'è stato e non poteva starci. E' sopravvissuto alla più grande e più inutile rivoluzione della storia del calcio. Quella cominciata proprio da Sacchi, perché il calcio totale olandese era ben altro, come ben altro era stata la meravigliosa Ungheria di Puskas. Giocava da solo Baggio, il che non significa che non servisse assist meravigliosi ai compagni o che non ne ricevesse. Ma, insomma, non rincorreva gli avversari, non ripiegava, come si dice malamente da qualche lustro a questa parte. Non andava a tempo. Epperò decideva. Ha cambiato molte squadre in carriera, diventando il beniamino di tutte le tifoserie. Egregio, perché fuori dal gregge. Un campione senza tempo.

lunedì 5 maggio 2014

Cassano 146 gol in carriera, rinnova la tradizione dei grandi numeri dieci italiani

Cassano andrà al mondiale, ormai restano pochissimi dubbi. Per paradosso, a 32 anni, sarà il primo di una carriera sempre vissuta ad un passo dalla gloria. Talento bizzoso ma grandissimo, l'asso barese ha sprecato negli anni migliori due stagioni a cavallo tra 2005 e 2007. Ancora gli manca quel che allora non seppe raccogliere, durante i bagordi di Madrid, quando smise di essere un atleta. Poi, però, ha saputo riprendersi, è tornato in nazionale, ha limato verso l'alto i suoi numeri, che sono indicatori affidabili, per quanto non gli unici, del valore di un attaccante. Perché Cassano è un attaccante, di fantasia e di estro, ma un attaccante. Ieri, è arrivato a 12 gol in campionato: per la quarta volta in doppia cifra in serie A, dove ha segnato complessivamente 106 gol. In carriera, Cassano ha segnato 146 reti. Qui di seguito, propongo una classifica dei gol segnati in carriera dai grandi numeri dieci del calcio italiano degli ultimi 30 anni. Se Del Piero, Roberto Baggio e Totti sono lontani da Cassano, sopra la vetta dei 300 gol, Mancini e Zola, poco sopra i 200 gol, mi pare che siano alla portata del campione del Parma. 

  1. Del Piero 345 gol
  2. Roberto Baggio 318 gol
  3. Totti 305 gol
  4. Mancini 217 gol
  5. Zola 203 gol
  6. Cassano 146 gol