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martedì 28 gennaio 2020

In memoria di Kobe Bryant. L'invidia degli dei?

I greci, che la sapevano lunga, si erano persuasi che nessun peccato fosse più difficile da espiare della felicità. La felicità, un peccato? Sì, perché cagione dell'invidia degli dei, la φθόνος τῶν θεῶν. La scomparsa tragica, imprevedibile, precoce di un talento detto fortunato e perciò felice come Kobe Bryant riaccende la luce su quell'oscuro sentimento: l'invidia. A dirla tutta, non credo che Kobe Bryant fosse stato in tutto e per tutto fortunato nella sua vita di campionissimo. Intanto perché non gli era riuscito di mantenere un rapporto affettuoso con la sua famiglia d'origine e credo che per lui fosse motivo di tristezza. Poi, perché della sua fortuna Bryant non era stato erede sventato e accidentale, ma costruttore sapiente e infaticabile, autentico faber. Sapeva di pallacanestro come pochi altri. Aveva fatto di uno sport dai movimenti codificati e codificabili e perciò replicati e replicabili quasi una scienza applicata al talento, che pure aveva in abbondanza: era figlio d'arte. Ed aveva appreso in Italia i fondamentali del basket. Venti anni di Nba senza mai scendere sotto una soglia, elevatissima, di rendimento. Una personalità debordante, la capacità, stimmata del fuoriclasse, di decidere nei momenti solenni della partita, di chiedere la palla mentre gli altri si nascondono. E, poi, anche di segnare sul serio. Cinque titoli con L.A. Lakers, la coppia improbabile ma vincente con O'Neal. la guida geniale di Phil Jackson. Kobe Bryant era un leader naturale e allo stesso tempo programmato. Ma, da se stesso. Dalla propria ansia di perfezione, dal proprio desiderio di ascendere a vertici che forse, per davvero, gli hanno attirato l'invidia degli dei. Era un eroe Kobe Bryant ed è molto raro che gli eroi invecchino.


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Kobe Bryant (1978-2020)


martedì 10 dicembre 2019

Il calcio non è il basket. La dittatura degli schemi

Il calcio non è il basket. Si potrebbe cominciare con questa breve, inattaccabile, ricognizione dell'evidenza. Perché ne parlo? Perché la dittatura degli schemi nel calcio è stato mutuata, pressoché integralmente, dalla pallacanestro. Che però non è il calcio:

  • le dimensioni regolamentari di un campo di calcio variano dai 100 a 110 m in lunghezza e dai 64 ai 75 metri in larghezza, almeno in partite internazionali;
  • le dimensioni di un campo di basket sono di 28 metri in lunghezza e di 15 metri in larghezza;
  • il calcio si gioca in 11, con possibilità di 3 sostituzioni, definitive;
  • il basket si gioca in 5, con possibilità di sostituzioni provvisorie non soggette a limitazioni;
  • una partita di calcio dura 90 minuti più recupero, pause ed interruzioni incluse;
  • una partita di basket dura 40 minuti, ma di tempo effettivo, le pause non sono conteggiate;
  • un'azione, nel calcio può durare minuti;
  • un'attacco, nella pallacanestro, è soggetto alla mannaia dei 24 secondi.
Mi limito, per brevità, a rammentare queste notissime distinzioni, che, da sole, dovrebbero spiegare l'irriducibilità del calcio al basket. E viceversa. Risulta intuitivo come, nel basket, gli spazi contenuti, il tempo effettivo, il ridotto numero di giocatori sul campo, la durata prestabilita di un possesso e via seguitando dia spazio agli schemi e alle variazioni di questi molto più del calcio. Come, si potrebbe consultare un qualsivoglia manuale di guerra, è molto più difficile prevedere manovre in campo aperto che non in scontri ravvicinati. Per queste ragioni, ho sempre guardato con sospetto ai predicatori degli schemi esatti nel calcio. Dove le variabili condizionanti sono molte di più e assai meno prevedibili. E, poi, c'è sempre il limite del buon senso, che è la faccia rustica dell'intelligenza. E mi sembra di ricordare che anche Phil Jackson, allenatore sommo e collezionista di titoli Nba abbia scherzato sugli schemi, dicendo che, alle volte, i suoi secondi ne disegnavano di così complessi, volendo dire irrealizzabili, che nemmeno lui li capiva.