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venerdì 9 dicembre 2022

Croazia-Brasile: 5-3 d.r.: Croazia in semifinale. Neymar 77 gol in nazionale come Pelé, ma non basta

Il possesso palla croato imbriglia la fantasia dei solisti brasiliani, troppo preoccupati di ricevere palla tra i piedi e poco disponibili a muoversi senza.  Al resto pensa il portiere croato Livakovic, ben protetto da Lovren e Gvardiol. Il primo tempo finisce 0-0. E la ripresa prosegue con le medesime modalità. Senza spazi, Richarlison torna un calciatore di medio talento, incapace di contendere un pallone aereo ai difensori avversari: a sette minuti dal novantesimo, viene sostituito da Pedro, nemmeno lui un fenomeno. Si va ai supplementari. La Croazia sbaglia un gol facile con Brozovic, il Brasile ne trova uno meraviglioso con Neymar, che avvia dalla trequarti una serie di triangolazioni che lo porta a saltare il portiere avversario per il gol n. 77 in nazionale: eguagliato Pelé. Quanto ai gol, sia chiaro, solo quanto ai gol. A tre minuti dallo scadere del secondo tempo supplementare, un'azione croata magistralmente iniziata da Modric porta alla conclusione deviata di Petkovic: la Croazia pareggia. Si va ai rigori. Segnano tutti i croati, sbagliano per il Brasile Rodrygo - era più che prevedibile - e Marquinos, che prende il palo. Croazia, relativamente a sorpresa, in semifinale. Dispiace per un grande campione come Neymar, che avrebbe meritato di andare avanti in questi mondiali di Qatar 2022. I verdeoro hanno difeso troppo blandamente, nel finale, il vantaggio appena conquistato. Ma, il calcio ha due fasi. E, dal 1982, dovrebbero ricordarlo bene.


domenica 3 gennaio 2021

Cristiano Ronaldo supera Pelé: 763 gol in carriera

È arrivato a 763 gol in carriera Cristiano Ronaldo. Considero anche quelli segnati con l'under 21 e la nazionale olimpica. Perché si è trattato, nel suo caso, di competizioni destinate a giocatori professionisti. Due (o uno) più di Pelé! 

Aggiornamento del 3 febbraio 2021: dopo la doppietta di ieri in Coppa Italia, Cristiano Ronaldo è salito a 767 gol in carriera.

mercoledì 25 novembre 2020

Maradona addio! Il più grande giocatore della storia del calcio se n'è andato a 60 anni.

Stupore e incredulità. Lo stesso stupore e la stessa incredulità che provavo, tanti anni fa, di fronte alle prodezze sempre nuove, sempre abbaglianti, sempre prometeiche del più straordinario calciatore mai nato. Stupore e incredulità. La notizia mi raggiunge via radio, mentre sono in automobile. Dall'Argentina la notizia della morte di Diego Armando Maradona. Che stesse male e da tempo era noto; che avesse di recente subìto un delicato intervento chirurgico anche; che fosse scampato, lungo la scoscesa via dei mille eccessi seguiti allo splendore incandescente del campo, a molti agguati della vecchia con la falce pure. Tutto questo era noto, ma che Maradona potesse morire, ecco, questo era impossibile da pensare. Perché gli eroi non muoiono. E non dovrebbero morire. E Maradona era stato un eroe. Un eroe del Sud del Mondo, cresciuto dentro una delle tante ville miseria di Buenos Aires, ed era asceso alla gloria imperitura. Gli scudetti contro la storia a Napoli, il Mondiale 1986 contro le leggi della fisica, con l'Argentina. Con quel sinistro fabuloso e incantatore, che con la palla amoreggiava senza bisticci, ricambiato, tramutando in successi inaspettati tutti i sogni più avventurosi. Maradona aveva conservato lo sguardo timido del ragazzetto che, a dieci anni, intervistato dalla televisione argentina, dopo aver regalato palleggi e giocate da prestigiatore, diceva di voler giocare un mondiale con l'Argentina e di volerlo vincere: due sogni aveva, quei due. Li avrebbe realizzati entrambi. Menotti non lo convocò ai mondiali di casa del 1978, lasciando a Kempes e Passarella e Ardiles il compito di portare acqua al mulino dei colonnelli. Meglio così. Maradona era già un fenomeno, che solo di lontano poteva rassomigliare a Sivori, fortissimo ma senza un decimo della forza dirompente e del carisma di Diego Armando, o a Rivelino, brasiliano, mancino va da sé, idolo d'infanzia del medesimo Maradona. I due sommati e moltiplicati per dieci non potevano valere un decimo di Maradona. E sia detto con rispetto per quei campioni veri. Il problema è che Maradona era di un'altra pasta. Veniva da un altro mondo. Giocava un altro calcio. Nessuno ha saputo prendere per mano squadre, oneste e modeste, e portarle al trionfo come ha fatto lui. Nessuno ha saputo elevare il livello di gioco dei compagni come ha fatto lui. Nessuno, in nessuno sport. L'identificazione simbiotica e romanzesca che visse con Napoli, trascinata due volte sul tetto d'Italia fu emblematica e, mi si lasci dire, metacalcistica perché antistorica. Maradona fu il novello Masaniello, cui il popolo, tutto il popolo, però, mai voltò le spalle, continuando a sentirne e subirne e impetrarne fascino e malia anche quando Maradona se ne andò. Via dall'Italia nel marzo del 1991 è come se fosse oggi. Perché gli eroi, Maradona fu un eroe magnifico, possono fermare il tempo e lo fermano. I suoi gol, quella punizione dentro l'area contro la Juve di Tacconi, il gol contro l'Inghilterra a Messico '86, le giravolte e le rabone, e i mille calci che non riuscivano ad atterrarlo - perché Maradona aveva nelle cosce e nel tronco una forza erculea, che se ne infischiava dei suoi 165 cm - quei tiri mai violenti e sempre vincenti, quelle inesorabili carezze al pallone, tutto questo non è passato e non passerà. Non c'è Pelé che tenga, figuriamoci Messi. Maradona è stato, anzi, è, il più grande giocatore di ogni tempo. Perché è oltre il tempo. Maradona è morto e con lui se ne va, rattristata ma fiera, una parte della nostra giovinezza. Eppure Maradona è giovane, perché gli eroi sono giovani e belli. E noi possiamo illuderci di rimanere - e forse davvero restiamo - i ragazzi che eravamo allora, quando, anche tifando per altre squadre, ci dicevamo: hai visto? Hai visto cos'ha fatto Maradona? Sapevamo che sfuggiva anche al novero dei campionissimi e ce n'erano ai tempi, da Rummenigge a Platini a Zico. Epperò Maradona, questo l'ammettevamo tutti, era altro, era oltre, era troppo. Chi era Maradona? Dovreste intervistare i suoi compagni di squadra. Non uno, non uno di loro ha mai avuto parole che non fossero d'inalterabile riconoscenza e d'incessante elogio, nonostante gli allenamenti disertati e i molti privilegi che gli lasciavano. Perché Maradona era il più forte, senza lasciarlo intendere e senza farlo pesare. Assumendo tutte le responsabilità e dividendo tutti gli onori. Solo di qualche onere, l'allenamento appunto, amava fare a meno. Ma, in campo, in campo Maradona era sempre Maradona. Lo sapevano i compagni e lo sapevano gli avversari. Se mai vi venisse in mente, che so?, il confronto con Pelé, ecco, andate a leggere le formazioni, una migliore dell'altra, del Brasile del 1958, del 1962 (Pelé giocò una partita e mezza e fu sostituito, benissimo, da Amarildo) e del 1970, e poi scorrete la formazione dell'Argentina del 1986. Su, non c'è confronto. Pelé grandissimo, Maradona incommensurabile. La rive gauche del calcio. Il rivoluzionario, l'antagonista, il barricadero. Ve le figurate le facce degli inglesi, pieni di birra un'ora prima della chiusura dei pub, quando in cinque minuti Maradona scrisse il più grande dramma scespiriano mai rappresentato: gol di mano e poi il gol del secolo? Che faccia fece la Thatcher di fronte al pernacchio di quello scugnizzo, di quel guascone sudamericano, che Galeano definì il più umano degli dei e Brera ribattezzò divino scorfano? Una sconfitta militare, quella delle Malvinas vendicata con una sequela ritmata di tutte le figure del tango. Maradona non solo giocava meglio di chiunque altro, Maradona era il campione di un romanzo popolare, che ce la faceva. Era Jean Valjeant e Oliver Twist, ma pure, a modo suo, il principe Myskin, che il mondo, anche soltanto per sublimi, sfuggenti attimi lo cambiava sul serio. Il re di una corte dei miracoli, che batteva moneta e concedeva grazie. Mi piace ricordare che quando calciava i rigori, di solito, il portiere restava fermo, immobile, al centro della porta. Percosso e attonito, parafrasando qualcuno. Così siamo noi in questo momento. Perché, no, non ce l'aspettavamo. Che la terra gli sia lieve.

lunedì 16 novembre 2020

Il calcio degli anni '50: da Di Stefano a Kubala, da Puskas e Pelé

Il calcio riprese, in Europa, molto lentamente dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Dalla fine degli anni '40 e nei primi anni '50 ci fu una perentoria affermazione del football nordico, svedese e danese, che non ha eguali nella storia. Forse perché la Svezia era rimasta fuori dal conflitto e la Danimarca ne era uscita prestissimo. La Svezia di Nordahl, Gren e Liedholm vinse l'oro alle Olimpiadi di Londra del 1948 e, senza di loro, perché ormai professionisti con il Milan - gli svedesi avevano una concezione solo dilettantistica del calcio - giunse terza ai mondiali del 1950 in Brasile.

Il Mondiale brasiliano fu complicato. Il secondo in Sudamerica, dopo quello uruguaiano del 1930. E lo stesso vincitore. L'Uruguay del divino dieci Schiaffino, tecnico ma tenace, artista del dribbling ma essenziale, il primo, pare, ad usare con sistematicità il tackle in scivolata, con gli arbitri che gli fischiavano sempre fallo.

Juan Alberto Schiaffino


Lui e Ghiggia firmarono il 2-1 nella finale, che era solo l'ultima partita di un girone conclusivo, che gettò nella disperazione milioni di brasiliani. Il calcio era già la loro religione laica, come lo è il ciclismo per il Belgio. L'Italia, orfana dei campionissimi del Toro scomparsi a Superga, vi ottenne una dolente eliminazione al primo turno. Come i superbi maestri inglesi: disertati i precedenti mondiali per ritenuta superiorità, vennero buttati fuori dagli ex coloni degli Stati Uniti, che stavano al calcio, come gli inglesi al buon cibo. Il magnifico centravanti brasiliano Ademir, nove gol e capocannoniere, dovette contentarsi del secondo posto. E, con lui, Zizinho. Uno del calibro di Pelé o, almeno di Zico, penalizzato dall'assenza di vere riprese televisive. Lo stesso destino di Meazza e Sindelar, di Leonidas e dello stesso Valentino Mazzola.

Zizinho


In Italia, dominavano Inter, Juve e, grazie agli svedesi più, dopo, lo stesso Schiaffino, il Milan. Che vinse nel 1951 uno scudetto dopo 44 anni! L'Inter aveva un formidabile trio d'attacco: il brevilineo e scattista Lorenzi, il fantasioso mancino svedese Skoglund e l'apolide Nyers, dalla progressione implacabile e dal tiro micidiale. Con Foni, due scudetti consecutivi nel '53 e nel '54. Squadra raccolta, difesa e contropiede. E Blason libero, ruolo e definizione che avrebbero avuto larghissima fortuna nel decennio successivo. Nella seconda metà degli anni '50, divenne una potenza calcistica anche la Fiorentina del portiere Sarti, dell'ala brasiliana Julinho, dell'attaccante argentino Montuori. Nel 1956 fu scudetto e, l'anno dopo, finale di Coppa dei Campioni, contro il Real Madrid di Santiago Bernabeu, illuminato dal massimo Alfredo Di Stefano.

Di Stefano, classe 1926, era il successore calcistico di Valentino Mazzola. Più alto e più attaccante, ma come il capitano del Grande Torino, uomo ovunque, che contrastava, dirigeva il gioco e lo concludeva. Un asso carismatico, che aveva difeso i colori della nazionale argentina, poi di quella colombiana e che avrebbe giocato anche con la Spagna. 
Alfredo Di Stefano

Nel 1958, l'avrebbe raggiunto un altro fenomeno calcistico, l'ungherese Ferenc Puskas, totem della Grande Ungheria che perse d'un soffio i mondiali del 1954. L'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956 aveva spinto molti grandi giocatori della miglior squadra magiara, la Honved, che si trovavano in trasferta, a non rientrare in patria. Tra questi Puskas, che, prima del Real, avrebbe scontato due anni d'inattività forzata, preso oltre dieci chili e giocato altri otto anni, limitando il suo raggio d'azione, pronto ad innescare il suo tremendo sinistro. Le ultime due, delle cinque Coppe dei Campioni consecutive del Real Madrid, avrebbero portato anche la sua firma.
Ferenc Puskas

Si diceva del mondiale del 1954, che si disputò in Svizzera. L'Ungheria vi arrivava da grande favorita. Dopo aver stravinto - nei paesi dell'Est erano tutti dilettanti - le Olimpiadi di Helsinki del 1952. Nel novembre del 1953, Puskas, mezzala sinistra, Kocsis, mezzala destra, e Hidegkuti, centravanti arretrato di altissima sapienza calcistica, avevano inflitto un perentorio 6-3 agli inglesi a Wembley. Poco dopo avevano tramortito gli avversari increduli con un 7-1 casalingo. In Svizzera, però, complice anche un infortunio di Puskas, che giocò menomato la finale, pur segnando il gol del vantaggio, s'impose la Germania Ovest, 2-1. E fu il centravanti tedesco Fritz Walter a sollevare la Coppa. I magiari, che erano stati grandissimi già negli anni '30, con Sarosi tra i pochi a contendere a Meazza il titolo di miglior giocatore del mondo, giocavano un calcio mai visto. Palla soprattutto a terra, terzini che attaccavano, e tiravano tutti da fuori. Il tiro all'ungherese, d'esterno piede, divenne proverbiale. I brasiliani, che a quel mondiale fallirono, decisero d'ingaggiare tecnici magiari per insegnare ai propri giocolieri il tiro dalla lunga e media distanza: non si poteva, capirono, entrare sempre in porta con la palla. Fu una delle premesse del successo verdeoro ai mondiali di Svezia del 1958.

Quei mondiali, quelli di Svezia 1958, l'Italia non li giocò proprio, come poi le sarebbe successo con gli ultimi di Russia 2018. Vinse il Brasile allenato da Vicente Italo Feola - il nome ne dice le origini - che schierava un attacco atomico - l'atomica era l'ossessione di quegli anni - con Garrincha, Didì, Vavà, Pelé e Zagallo. E se quest'ultimo tornava, ogni tanto, gli altri molto meno. E i terzini Djalma Santos e Nilton Santos attaccavano come ali aggiunte. Un trionfo, che rivelò al mondo l'estro impareggiabile di un Pelé non ancora diciottenne. Fu battuta la Svezia padrona di casa in finale, con gli stagionati, ma fortissimi, Liedholm e Skoglund ancora in campo. Capocannoniere, 13 gol!, Fontaine, attaccante francese d'origini non francesi, come la mezzala Kopa. E come, dopo, Platini, Zidane, Henry, Mbappé.

Il caso volle che Di Stefano non giocasse nemmeno un mondiale. Come lui Kubala, straordinario centrocampista del Barcellona, ungherese che debuttò con la nazionale cecoslovacca, migrò in quella ungherese e concluse in quella spagnola. Aveva un fisico, Kubala, che sarebbe ancora oggi dominante e un controllo di palla che si rivide in Zidane e Riquelme.
Laszlo Kubala

Lui, il detto Di Stefano e Valentino Mazzola sono stati i più forti campioni a non aver, non per loro colpa, disputato un solo mondiale in carriera.

lunedì 2 novembre 2020

Serie A 2020/21: il punto dopo la 6^ giornata

Milan sempre in testa, dopo la sofferta vittoria contro l'Udinese, propiziata da una rovesciata di Ibrahimovic. Non so quanto potrà durare la supremazia rossonera. Ma credevo poco anche nel Milan di Zaccheroni, che poi vinse lo scudetto nel 1999. Perciò, dirò solo sottovoce che non mi pare in grado di durare.

La Juve fatica altrettanto e di più contro lo Spezia, vincendo solo quando i liguri calano d'intensità. Doppietta di Cristiano Ronaldo, che sale a 749 gol in carriera. Vicinissimo ai 761 o 762 segnati da Pelé in partite ufficiali. Sarebbe, i gol di Bican mi convincono fino ad un certo punto, il record assoluto. 

L'Inter pareggia male contro il Parma. O Conte svolta e vince le prossime due partite oppure penso che ci sarà l'esonero evitato ad agosto.

Sconfitta del Napoli contro il Sassuolo di De Zerbi, che gioca bene, ma gli azzurri hanno fallito un mucchio di occasioni. Troppe.

Vittoria anche per la Roma, contro la Fiorentina, e la Lazio, in rimonta su un Toro sempre più ultimo.

venerdì 23 ottobre 2020

Gli 80 anni di Pelé (Edson Arantes do Nascimento)

Per spiegare la dimensione planetaria del fenomeno Pelé, Edson Arantes do Nascimento in arte Pelé, nato il 23 ottobre del 1940, mi servirò di un piccolo episodio dei tempi di scuola. Frequentavo, la terza, o la quarta?, elementare e sul sussidiario m'imbattei in una pagina che raccontava, con parecchia enfasi, il millesimo gol di Pelé, segnato in Brasile nel 1969. Un calcio di rigore trasformato con sapienza, l'attesa dei tifosi, la pacifica invasione del campo. Stava già sul sussidiario, Pelé, quello unico delle elementari dei primi anni '80. Era, credo di ricordare, il 1983. Pelé aveva smesso di giocare da sei anni, aveva solo 43 anni e già compariva sui libri di scuola. Già aveva scavalcato il recinto dello sport, per insediarsi nell'immaginario collettivo. In realtà, Pelé era diventato subito leggenda, dai mondiali svedesi del 1958, quando con sei gol, alcuni meravigliosi, contribuì, non ancora diciottenne, alla conquista del primo mondiale per i brasiliani. Quale straordinario giocatore fosse, credo che qualunque appassionato di calcio abbia potuto leggerlo ed anche vederlo nelle immagini di repertorio sgranate dal tempo. Prodigio di coordinazione, forte, veloce, rapido, ambidestro, tecnico, fantasioso. Eccellente in tutti, e dico tutti, i fondamentali del gioco. Se il numero 10 divenne un simbolo del gioco del calcio fu perché era il suo: prima tutti i ragazzi desideravano il 9 del centravanti. Tre mondiali vinti, come mai nessuno prima e dopo di lui. Icona degli anni '60, anche se il vertice del rendimento e della maturità tattica ed agonistica lo raggiunse a Messico 1970, annettendosi il terzo mondiale dentro il contesto di una squadra illogica - 5 numeri 10 assieme, ma il 10, va da sé, sulle spalle - ed irripetibile. Il secondo, quello del 1962 in Cile, il Brasile l'aveva invece conquistato quasi senza di lui, presto infortunato e sostituito da Amarildo. Non lo considero il migliore della storia, Pelé, solo perché poi venne Maradona.

mercoledì 14 ottobre 2020

Neymar 64 gol con il Brasile, superato Ronaldo, punta Pelé

La tripletta al Perù regala a Neymar, 28 anni, che saranno 29 ad inizio 2021, il secondo posto solitario nella classifica dei cannonieri di ogni tempo della nazionale brasiliana: 64 gol! Superato Luis Nazario da Lima, in arte Ronaldo, fermo a 62 e che era più forte di lui. E punta il primatista Pelé, 77 gol, che, ca va sans dire, era più forte di lui. Ciò nondimeno, Neymar è un fuoriclasse. Un artista del gioco, uno che va poetando mentre gli altri, anche i migliori, prosano. Velocissimo e rapidissimo - sì, c'è differenza tra velocità e rapidità -, tecnicamente superlativo, qualità di tiro notevolissima, personalità e fantasia. Brasiliano nel senso tecnico del termine. Si è costruito una grande carriera a dispetto di un fisico poco esplosivo, che molti credevano poco adatto al calcio europeo. La verità è che quando Neymar in condizione punta l'avversario, lo salta, sistematicamente. Io lo preferisco, non da oggi, a Messi.

giovedì 9 luglio 2020

Il calcio degli anni '60. La rinascita italiana

Gli anni '60 segnarono il riscatto del calcio italiano, dopo il buio del decennio precedente, contrappuntato da due eliminazioni al primo turno, ai mondiali del 1950 e del 1954, e dalla mancata qualificazione ai mondiali di Svezia del 1958, poi grottescamente replicata 60 anni dopo, quando l'Italia non riuscì ad arrivare a Russia 2018.


Parlavo di riscatto, sì. E le ragioni di questa formidabile ripresa vanno anzitutto ricercate nella resurrezione di tutta la Penisola dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Era l'Italia del boom economico, con i consumi che raddoppiavano, il PIL che cresceva quasi a due cifre, lo sport che diventava fenomeno di massa. Era accaduto, proprio intorno al 1958 peraltro, che il calcio superasse, tra gli appassionati, il ciclismo, per guadagnare un primato mai più discusso di sport nazionale.


Eppure i mondiali del 1962, vinti dal Brasile, che si permise di rinunciare a Pelé, presto infortunato, e quelli del 1966, conquistati in casa dall'Inghilterra, videro ancora gli azzurri fuori al primo turno. Nel 1962, fallì la politica degli oriundi, i fortissimi sudamericani con origini italiane, spesso assai remote. Di quella spedizione fecero parte assi del calibro di Altafini, che aveva vinto il mondiale del 1958 con il Brasile, Sivori, Maschio, Sormani. Andò male, pare anche per le continue ingerenze sulle scelte tecniche della stampa specializzata, che all'epoca aveva, su un calcio visto da pochissimi, un ascendente quasi sacerdotale e per un arbitraggio ostile contro i padroni di casa del Cile. Andò persino peggio nel 1966 in Inghilterra, quando la Corea del Nord eliminò l'Italia, pur con l'attenuante del precoce infortunio occorso a Bulgarelli, quando, ancora per pochi anni, non erano permesse le sostituzioni.

Eppure l'Italia aveva iniziato a dominare le competizioni internazionali per club, vincendo tre Coppe dei Campioni consecutivamente: con il Milan di Rivera e Cesare Maldini e Altafini e Trapattoni, nel 1963; con l'Inter allenata da Herrera e capitanata da Picchi, nel 1964 e nel 1965, con la regia di Suarez, gli assolo in velocità di Mazzola e Jair, i ricami mancini di Corso, ed una difesa così riconoscibile da diventare leggendaria e proverbiale: Sarti, Burgnich, Facchetti...La Grande Inter.
File:Formazione dell'Inter 1964-1965.jpg - Wikipedia
La Grande Inter (1964/65)

Il Real Madrid, che pure vinse la sua sesta Coppa dei Campioni nel 1966, eliminando l'Inter in semifinale, cominciava a declinare dopo il dominio della seconda metà degli anni '50. Sorgeva invece la stella del Manchester United di Busby e di Bobby Charlton, entrambi miracolosamente sopravvissuti al disastro di Monaco di Baviera, paragonabile alla tragedia di Superga, nel quale avevano perso la vita molti giovani talenti di sicuro avvenire, su tutti Duncan Edwards. La squadra inglese vinse il campionato nazionale nel 1965, poi di nuovo nel 1967 fino al successo più eclatante, quello nella Coppa dei Campioni del 1968: in avanti il trio delle meraviglie, la mezzala scozzese dal gol facilissimo, Denis Law, il centravanti inglese più tecnico e manovriero che si ricordi, Bobby Charlton, e l'ala destra nordirlandese, George Best, talento purissimo, estro senza freni, vita dissipata e gol magnifici. 
File:The United Trinity, George Best, Denis Law and Bobby Charlton ...
Statue di Best, Law e Bobby Charlton

Forse il giocatore più rappresentativo di questa magica decade fu però il portoghese, di origini mozambicane, Eusebio, poderoso centravanti dalla tecnica brasiliana, dalla progressione micidiale e dal tiro incendiario. Vinse, con il suo Benfica, la seconda Coppa dei Campioni consecutiva del 1962 e trascinò il Portogallo al terzo posto ai mondali del 1966 in Inghilterra, laureandosi capocannoniere con 9 gol. 
File:Eusebio (1963).jpg - Wikipedia
Eusebio (Portogallo)


Insieme a lui, il portiere sovietico Lev Jashin, campione d'Europa nel 1960, sempre vestito di nero, dal fisico imponente e i riflessi da gatto, per molti il miglior portiere di sempre. Ancora oggi si favoleggia sulle presunte doti ipnotiche esercitate sugli avversari. Sandro Mazzola ha più volte confermato questa leggenda, ricordando un rigore che Jashin gli parò in nazionale.
File:Lev Yashin 1960b.jpg - Wikipedia
Lev Jashin (URSS)


Nel 1960, furono organizzati i primi Campionati Europei per nazionali: vinse l'URSS. Nel 1964 toccò alla Spagna di Suarez e Gento. Nel 1968, 30 anni dopo il successo ai mondiali di Francia, toccò all'Italia allenata da Ferruccio Valcareggi. Che ebbe ragione in finale della Jugoslavia, dopo aver vinto il sorteggio con la monetina nella semifinale con l'URSS. Sorteggio vinto dal capitano Facchetti. La prima finale con la Jugoslavia finì in pareggio. Non essendo previsti i supplementari né, tanto meno, i rigori. Si rigiocò: vinse l'Italia con gol di Gigi Riva ed Anastasi. Per la prima volta, una massa di tifosi si riversò per le strade a festeggiare, sventolando bandiere tricolori. C'erano già state le occupazioni delle Università e le prime grandi manifestazioni studentesche. Di lì a poco, si sarebbero diffusi disordine e tumulti di piazza, contestazione generalizzata. Fu l'ultimo sprazzo di serenità prima che cominciasse uno dei periodi più bui e controversi della storia italiana.
File:Euro 1968 - Italia campione d'Europa.jpg - Wikipedia
Italia campione d'Europa nel 1968

Negli anni '60, ma fu questione specialmente, sebbene non solo, italiana, infuriò una serrata disputa sulla tattica. Fu allora che si cominciò a parlare di calcio all'italiana, talora, con sprezzatura, definito catenaccio, per contrapporlo al calcio più offensivo praticato dalle squadre del Nord Europa, Inghilterra in testa, o, in modo più tecnico e meno fisico, dal Brasile. Brera capeggiava i cosiddetti italianisti, convinti, sulla base di valutazioni culturali e biologiche spinte, che gli italiani fossero più acconci alla difesa e contropiede, che all'attacco con dominio del gioco. Troppi secoli di dominazioni subite e doti atletiche ritenute inferiori a quelle di popoli meglio nutriti e sviluppati. Era questa la tesi, molto politicamente scorretta. Dall'altra parte, la cosiddetta scuola napoletana, di Ghirelli e Palumbo, che inneggiava ad un calcio più offensivo e spensierato, eleggendone a simbolo Rivera ed il suo gioco compassato ma elegantissimo. La questione, sotto altre forme, e con l'ausilio di penne meno felici, dura ancora oggi.

venerdì 12 giugno 2020

Il mito di Roberto Rivelino

Rivelino, all'anagrafe brasiliana, Roberto Rivellino, è stato uno dei massimi calciatori della storia brasiliana. Di schiette origini italiane, intraprese la sua leggendaria carriera nel Corinthians di San Paolo. Numero 10, nel Paese, il Brasile, dove quel numero aveva assunto, già prima di Pelé, una dimensione simbolica, narrativa, immaginifica e quasi magica. Quando ancora in Europa si delirava per il 9, il centravanti, i brasiliani subivano l'incantamento delle giocate impreviste e spettinate dei grandi artisti, di cui il 10 sulla maglia era il primo e più immediato segno di distinzione.


Rivelino è un brevilineo dalla corporatura massiccia che occhieggia alla pinguedine. Alto 1,69 m, supera di non poco i 70 kg. Il baricentro basso, unito ad una tecnica da prestigiatore, è il segreto dei suoi improvvisi cambi di direzione, che lasciano sul posto i difensori avversari, che sottopone anche a continui tunnel e ad un dribbling di cui, con il tempo, acquisterà la privativa: l'elastico. Il suo mancino accarezza il pallone, ora da sinistra verso destra e ritorno, ora da destra verso sinistra e ritorno. Va sempre via al malcapitato controllore di turno.

Ai mondiali messicani del 1970, Rivelino è uno dei cinque numeri dieci che l'allenatore Zagallo, già due volte campione del mondo con la nazionale verdeoro da giocatore, pretende di far convivere. Con lui ci sono Gerson, Jairzinho, Tostao e sua maestà Pelè. Il dieci, noblesse oblige, andrà a quest'ultimo, Tostao si adatterà a giostrare da centravanti, Jairzinho agirà da ala destra, Gerson da mezzala e Rivelino andrà all'ala sinistra. Sarà un trionfo. Rivelino incanta.

Stampa:Brazil 1970.JPG - Wikipedija
Brasile 1970
Rivelino è alla sinistra di Pelé

Ai mondiali tedeschi del 1974, con il precoce ritiro dal calcio di Tostao e l'abbandono della nazionale da parte di Pelè, sarà proprio Rivelino il giocatore simbolo del Brasile, il cui sogno s'infrangerà contro il gioco totale dell'Olanda. Quarto posto finale.

Il giovane Maradona, argentino, e perciò poco propenso all'ammirazione dei brasiliani, confesserà, all'apice della fama, di essersi ispirato a due campioni degli anni '70: il connazionale Bochini e, come si sarà intuito, Roberto Rivelino. Maestro del dribbling, dell'assist e del tiro.

giovedì 13 febbraio 2020

Il calcio degli anni '70: da Pelé a Cruijff, da Cubillas a Figueroa

Il calcio degli anni '70 è spesso dimenticato, con l'eccezione di rievocazioni occasionali e per se stesse insufficienti, tanto che molti dei maggiori protagonisti di quell'epoca ancora romantica della pelota sono per lo più degli sconosciuti per le nuove generazioni. Proviamo a rimediare? 

  • Gli anni '70 cominciano con i mondiali messicani, che vedono il successo del maggior campione del decennio precedente, Pelé, guida tecnica del Brasile delle meraviglie, che mette assieme a lui altri quattro numeri 10, Gerson, Jairzinho, Tostao e Rivelino. Un caleidoscopio di classe allo stato puro, con cui il tecnico verdeoro Zagallo smentisce in una volta sola tutte le più scombinate teorie sugli equilibri, il gruppo e la tattica. La prevalenza del talento! Tanto più che il terzino destro, Carlos Alberto, è un fantasista egli pure, dal tocco prezioso e dalla corsa possente, mentre la direzione del gioco è affidato alla ventunenne stella del Santos di Pelé, Clodoaldo. C'è un filmato della finale, che mostra Clodoaldo uscire dal pressing italiano con quattro dribbling consecutivi, con massima eleganza, senza sforzo.

  • Il calcio totale d'Olanda è una rivoluzione, che abbaglia e frastorna. C'è del bello nella novità. Giocatori polivalenti, tutti addestrati fin dalle giovanili al possesso del pallone e alla consapevolezza tecnica, tutti capaci d'interpretare più ruoli e di scambiarsi le posizioni in campo. Ma, c'è anche un equivoco, sottostimato. Nel paese dei tulipani, per una congiura di circostanze fortunate, è fiorita, attorno al magnifico Cruijff, una generazione di talenti irripetibile: Neeskens, Rep, Rensenbrink, Krol, Van Hanegem. E si potrebbe continuare. Non a caso, al tramonto di quest'epoca bella, l'Olanda, dopo i secondi posti ai mondiali del 1974 e del 1978, fallirà le qualificazioni a Spagna 1982 e Messico 1986. Come a dire che l'organizzazione del gioco è sì importante ma non può supplire al valore degli interpreti.

  • Il calcio totale trova molti imitatori anche in Italia. A cominciare dal Torino di Radice, che vince lo scudetto nel 1976. Anche in questo caso, però, al netto dell'efficacia del pressing a tutto campo, dell'aggressività e tutto il resto del credo laico olandese, ci sono grandi giocatori a fare la differenza, dal portiere Castellini, ai gemelli del gol Pulici (3 titoli di capocannoniere) e Graziani, da Zaccarelli e Pecci a centrocampo all'estrosa ala Claudio Sala

  • Nelle coppe europee, si registra il passo indietro dell'Italia, che perde due volte contro l'Ajax di Cruijff la finale di Coppa dei Campioni, nel 1972, con l'Inter, nel 1973, con la Juve. Ajax, dal 1971 al 1973, e Bayern Monaco, dal 1974 al 1976, mettono a segno tris storici.

  • Poi, comincia il lungo dominio inglese, che si estenderà ai primi anni '80. Apristrada il Liverpool di Bob Paisley (subentrato ad un altro tecnico di caratura straordinaria come Bill Shankly) e prosegue il Nottingham Forrest di Brian Clough. Il calcio inglese cambia pelle, mantiene forza, corsa e atletismo, oltre a stadi carichi di passione che mettono in soggezione chiunque oltrepassi le bianche scogliere di Dover, ma inizia a farsi strada anche un gioco meno scontato, da palla lunga e pedalare, dai cross a ripetizione, si vira verso il pass and move. Kevin Keegan, ala destra dal gol facilissimo, sarà due volte pallone d'oro, nel 1978 e nel 1979, ma mancherà la qualificazione ad Argentina '78, venendo l'Inghilterra eliminata proprio dall'Italia.

  • Ai mondiali del 1974, si fa notare la Polonia, terza, del capocannoniere Lato e del centrocampista Deyna. L'Italia, data favorita, va fuori al primo turno. Arriva il congedo di tre giganti del calcio italiano, tutti intorno ai 30 anni: Sandro Mazzola, Gianni Rivera e Gigi Riva. Chinaglia, che aveva appena trascinato la Lazio di Maestrelli ad uno storico scudetto, litiga con Valcareggi e quella resterà l'immagine di una spedizione fallimentare. Resta uno dei centravanti migliori di tutta la sua generazione. Quando parte in progressione e s'ingobbisce ricorda Nordahl. Non è marcabile. Lo ricorderanno, ciascuno a suo modo, prima Elkjaer poi Vieri.

  • I mondiali del 1978, nell'Argentina dei colonnelli, registra il canto del cigno dell'Olanda, battuta in finale, tra le polemiche, dai padroni di casa, capitanati da un libero leggendario, Daniel Passarella, ruvidissimo in marcatura, ma con un mancino raffinato. È la stella della squadra, con l'atipico attaccante Kempes, capocannoniere del torneo, il virtuoso centrocampista Ardiles, dalla tecnica funambolica, la potente ala destra Daniel Bertoni, che negli anni '80 sarebbe sbarcato in Italia, brillando tra Firenze e Napoli. Menotti, tecnico dell'Albiceleste, si concede il lusso di non convocare il giovane Maradona. Che diventerà il più grande di tutti. Ai mondiali argentini, davanti all'Italia quarta, giunge terzo il Brasile, dilaniato dalla rivalità tra Zico, 10 dal dribbling secco, e il mancino al fulmicotone di Dirceu. Entrambi, nei luccicanti anni '80, verranno a giocare in Italia: Zico all'Udinese, Dirceu al Verona, al Napoli, all'Ascoli, al Como e all'Avellino. In quel Brasile, più forte di quanto si sia poi raccontato, giocano anche un goleador implacabile come il centravanti Roberto Dinamite e il fantasista offensivo Reinaldo.

  • Due giocatori sudamericani, che non provengono dalle potenze tradizionali di Brasile e Argentina ed Uruguay, caratterizzano il decennio. Il 10 peruviano Cubillas, dal tiro poderoso e dalla progressione implacabile: 5 gol a Messico '70, 5 gol ad Argentina '78; il libero cileno Figueroa, uno dei massimi difensori della storia del calcio.

  • Dopo anni di anonimato, riprende vigore anche il calcio dell'est. Della Polonia s'è detto. Nel 1976, a sorpresa, è la Cecoslovacchia a vincere i campionati europei. Panenka segna, con il primo cucchiaio che si ricordi, il rigore decisivo nella finale contro la Germania Ovest di Beckenbauer e di Gerd Muller. Brilla anche la Jugoslavia di Dzajic, già capocannoniere degli Europei vinti dall'Italia nel 1968. Un anno prima della rassegna continentale, c'era stata la vittoria della Coppa delle Coppe da parte della Dinamo Kiev dal calcio super organizzato di Lobanovskij: la stella è Oleg Blochin, velocissimo attaccante che viene premiato con il pallone d'oro.

  • La nazionale olandese è la squadra del decennio, eppure perde le due finali che gioca: quella del 1974, battuta dalla formidabile Germania Ovest di Franz Beckenbauer, libero e condottiero, del dominatore dell'area di rigore, Gerd Muller, del portierone Sepp Maier e del ruvido marcatore Berti Vogts; quella del 1978, come detto, contro l'Argentina. La sua importanza, considerate anche le straordinarie analogie fra le due compagini, è pari a quella dell'Ungheria favolosa degli anni '50. Essa pure sconfitta ai mondiali svizzeri del 1954 dalla Germania Ovest. Il capitano dei tedeschi è il citato Franz Beckenbauer, due volte pallone d'oro, già centrocampista formidabile a inizio carriera, è diventato un libero favoloso, che contrasta, riparte, ispira e conclude. Contende a Cruijff il titolo di asso del decennio.

  • In Italia, prevale la Juve, che si aggiudica cinque campionati su dieci. Gli altri vanno a Cagliari (1970), Inter (1971), Lazio (1974), Torino (1976) e Milan (1979). Segno che la serie A, peraltro priva di calciatori stranieri, è competitiva ed aperta a molti esiti diversi. Non ho memoria di un altro decennio con sei squadre diverse capaci di raggiungere il titolo nel nostro campionato.

  • La nazionale italiana è seconda ai mondiali del 1970, guidata da Ferruccio Valcareggi, e quarta a quelli del 1978, guidata da Enzo Bearzot, giocando un calcio bello ed efficace, grazie anche alla freschezza di due esordienti come Cabrini e il rapidissimo centravanti Paolo Rossi, che sarà poi l'eroe del terzo mondiale vinto dall'Italia, quattro anni dopo: nel mezzo la ricordata delusione del 1974.

  • Il Pallone d'Oro premia, come ricordato, tre volte l'olandese Cruijff. Due volte è assegnato al tedesco Beckenbauer (1972, 1976). Nel 1970 aveva vinto un altro tedesco, dell'Ovest, perché allora c'erano due Germanie, Gerd Muller, capocannoniere del mondiale messicano con 10 gol. Nel 1974 vince il sovietico, ucraino, Oleg Blochin, velocissimo attaccante della Dynamo Kiev dal calcio super organizzato di Lobanovskyi. Nel 1977, la minuta ala destra danese Simonssen. Nel 1978 e nel 1979, il ricordato inglese Keegan.

  • Dino Zoff è il miglior portiere del decennio. Altri grandi numeri uno sono il tedesco Maier, l'inglese Banks e l'altro inglese Clemence. Tra gli attaccanti, oltre a Gerd Muller, meritano una citazione Gigi Riva, fuoriclasse di caratura mondiale dal sinistro irresistibile che regala uno storico scudetto al Cagliari proprio all'alba del decennio, Roberto Bettega, tra i migliori colpitori di testa della storia, e l'austriaco Krankl.

martedì 10 settembre 2019

Cristiano Ronaldo: 700 gol in carriera

Quaterna alla Lituania e Cristiano Ronaldo, 93 gol con il Portogallo, raggiunge la fatidica soglia dei 700 gol in carriera. Come scrissi anni fa, il record assoluto di gol tra i professionisti in partite ufficiali, 762 di Pelé, è ampiamente alla sua portata.

martedì 7 maggio 2019

I grandi allenatori valorizzano i giocatori: le intuizioni di Pozzo e Zagallo

La bellezza salverà il mondo (Fedor Dostoevskij, L'Idiota)
Si discute, quasi sempre a sproposito, di bellezza del gioco. Eppure il calcio non è una gara di tuffi o di ginnastica artistica, dove si valuti l'armonia e l'adeguatezza di una figura o di un gesto. Nemmeno si può vincere ai punti, come succede nel pugilato. Per questa ragione, trovo inappropriato associare la bravura di un allenatore alla bellezza del gioco espresso dalla sua squadra. Se davvero bisogna intestare un merito ad un allenatore, a me pare che si debba guardare alla capacità che il tecnico abbia di migliorare il rendimento di ogni singolo giocatore, legandolo a quello dei compagni di squadra. Ecco che allora possiamo accedere all'esame di dati più certi.

Partiamo da Vittorio Pozzo, storico allenatore della nazionale italiana. Alla vigilia dei mondiali del 1934, che si disputeranno in Italia, ha tra i suoi giocatori il migliore al mondo, Giuseppe Meazza, che non ha ancora compiuto 24 anni. Centravanti tremendo dalla tecnica mai vista, dallo scatto bruciante, dal perentorio stacco di testa. Quello che oggi tutti ammirano in Cristiano Ronaldo, la sospensione in aria, ad altezze vietate agli altri giocatori, Meazza lo faceva già negli anni '30, sebbene non facesse la vita dell'atleta e fosse non solo il re dell'area di rigore, ma anche del tango ballato nei tabarin, con una sigaretta sempre accesa. Ecco, Pozzo, questo fenomeno di attaccante, decide di arretrarlo a mezzala, perché ha bisogno lì del suo estro impareggiabile, mentre un altro centravanti, meno dotato e spettacolare, comunque ce l'ha: Schiavio. L'Italia sarà campione del mondo! Così pure quattro anni dopo in Francia. Meazza, che nell'Ambrosiana-Inter è centravanti e capocannoniere del campionato, prende l'8, il centravanti lo fa Piola. L'Italia vince il secondo mondiale consecutivo. 

sabato 17 novembre 2018

Neymar 60 gol con il Brasile. Insegue Ronaldo, 62 gol, e Pelé, 77 gol

Brasile-Uruguay 1-0, decide Neymar su rigore. Per l'asso del Psg è il gol numero 60 con la nazionale verdeoro. Insegue Ronaldo, autore di 62 gol con il Brasile, e il primatista assoluto Pelé, 77 gol. Neymar, 27 anni il prossimo febbraio, li supererà entrambi. 

mercoledì 9 maggio 2018

Storia dei mondiali di calcio: Clodoaldo del Brasile '70. Il ritratto dei grandi campioni (22^ puntata)

Giocava nel Brasile più forte di sempre, quello che si aggiudicò definitivamente la Coppa Rimet, nome originario dei mondiali di calcio, nel 1970, battendo 4-1 l'Italia di Valcareggi in finale. Una squadra formidabile, capitanata dal terzino destro Carlos Alberto e che schierava, contemporaneamente, alla faccia degli alchimisti della tattica, del pressing e del fuorigioco e del gruppo, che poi sarebbero venuti, i migliori 5 numeri 10 brasiliani del tempo. L'inarrivabile Pelé, Tostao, Jarzinho, Gerson e Rivelino. Pelé interpretò se stesso. Gli altri si adattarono. Jarzinho da ala destra, Rivelino da ala sinistra, Tostao da centravanti, Gerson da mezzala. Eppure, in campo, comandava Clodoaldo. Il regista basso si direbbe oggi, il volante, appena ventunenne. Un prodigio di tecnica e di corsa, di visione del gioco e di carisma. Quel Brasile, che Zagallo aveva voluto a dispetto di tutte le regole più banali sui ruoli e la complementarietà, si reggeva sulla sapienza strategica, prima, e tattica, poi, di Clodoaldo. Così giovani, in mezzo al campo, solo due altri giocatori sono stati determinanti, nella diversità da Clodoaldo. Duncan Edwards, l'asso del Manchester United precocemente scomparso nella tragedia di Monaco di Baviera, ed il Bernd Schuster, che, con l'allora Germania Ovest, incantò agli Europei d'Italia del 1980. (1^ puntata2^ puntata3^ puntata4^ puntata5^ puntata, 6^ puntata7^ puntata8^ puntata9^ puntata10^ puntata11^ puntata12^ puntata13^ puntata14^ puntata15^ puntata16^ puntata17^ puntata18^ puntata19^ puntata20^ puntata, 21^ puntata)
Brasile-Italia, finale dei campionati del
mondo del 1970 in Messico