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lunedì 11 marzo 2024

Inzaghi sulle orme di Herrera

Cross di Bastoni, gol di Bisseck. Ora, tutti hanno scoperto il segreto del calcio di Simone Inzaghi. Tutti hanno licenza di attaccare, se un difensore va in attacco, un centrocampista indietreggia. Le posizioni, in campo, mutano a seconda delle necessità, tutti sono esaltati da un'organizzazione che non strozza l'estro e premia l'audacia. Poi, contano i risultati e l'Inter di Inzaghi, che lo scorso anno perse dodici partite in campionato, in questa stagione sta dominando la serie A. E i paragoni con il passato tengono banco. A chi somiglia Inzaghi? A sé stesso, certo. Ognuno è unico, cambiano i tempi e i giocatori e gli avversari. Nulla si replica. Però, se proprio devo accostare Inzaghi a qualcuno, penso a Helenio Herrera. Tanti se ne meraviglieranno. Provo a spiegare.

  1. Herrera arrivò all'Inter nel 1960, reduce da due campionati vinti con il Barcellona contro il Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni consecutive. Quel Barcellona praticava un calcio offensivo, segnava gol a ripetizione, comandava il gioco con due centrocampisti universali come Kubala e Suarez, che un anno dopo avrebbe raggiunto Herrera all'Inter. Una volta a Milano, Herrera promise gol e spettacolo. Spettacolo e più di 100 gol in campionato. Sì, proprio lui, che sarebbe poi passato alla storia come re del catenaccio, della difesa e del contropiede.
  2. La sua prima Inter aveva davvero una grande vocazione offensiva, ma subiva troppo. Herrera imparava dalla sconfitte, imparava sul serio. Si rese conto che sarebbe servito, soprattutto in Serie A, un maggiore equilibrio. Seppe cambiare. Adottò il libero e vi adattò Picchi, che prima era un terzino: una formidabile intuizione. Così inizio a costruire quel mirabile edificio, che sarebbe diventato la Grande Inter.
  3. Herrera, fine psicologo e motivatore ante litteram, seguiva il corso delle sue idee e assumeva rischi. Così inventò Facchetti ala aggiunta, qualcosa di mai osservato prima. In Europa, restarono tutti di sasso, di fronte alle proverbiali galoppate del gigante nerazzurro, un terzino che arrivava sul fondo, crossava e tirava e segnava. Corso, ala sinistra di nome, se ne veniva in mezzo al campo, per liberare spazio a Facchetti. E nonostante l'11 sulle spalle, spesso prendeva palla a destra, si accentrava, scambiava e rifiniva o concludeva. Mazzola, cresciuto centrocampista, con Herrera divenne attaccante. Un attaccante, pure lui, mai visto prima. Una saetta velocissima e dal dribbling secco come il tiro, sempre anticipato. Non giocava spalle alle porta. Suarez, mezzala di talento cristallino, fu spostato davanti alla difesa e con i suoi lanci armava il contropiede di Jair e Mazzola. Fatti noti, certo, ma rivoluzionari a quei tempi. I numeri sulle spalle non dicevano tutto dei ruoli in campo. Si pensi anche a Domenghini, un'ala destra, impostato centravanti.
  4. Inzaghi, 60 e più anni dopo, fa lo stesso. I suoi calciatori possono cercarsi la posizione che più conviene e interpretanoo spesso ruoli inediti, a volte diversi nella medesima partita. L'organizzazione non ne risente, perché se uno sale, l'altro scende, perché in campo si ruota e si sorprende. Anche lui ha fatto di un trequartista, Calhanoglu, prima una mezzala poi un regista arretrato. Mkhitaryan, da sempre trequartista o seconda punta ora è mezzala e metronomo della squadra. I suoi difensori centrali, come è successo contro il Bologna, possono anche costruire e concludere.
  5. Insomma, Inzaghi è un grande allenatore perché, come Herrera, sa proporre soluzioni inaspettate ai suoi calciatori, convincedoli di poterle mettere in pratica, ottenendo da loro il meglio. E gli avversari ci capiscono sempre meno. Da ultimo, anche Inzaghi, come accadde a Herrera con Angelo Moratti, ha saputo correggere la rotta, almeno in campionato, dopo confronti serrati con dirigenza e proprietà. La duttilità è sempre segno d'intelligenza.

domenica 9 luglio 2023

Tributo a Luisito Suarez eroe della Grande Inter

Quando, nel 1961, approdò all'Inter di Angelo Moratti, per riabbracciare Helenio Herrera, che lo aveva già allenato al Barcellona, Luis Suarez Miramontes era Pallone d'oro in carica (a oggi l'unico mai conquistato da un calciatore spagnolo). Vinto nel 1960, davanti al leggendario Puskas e al centravanti tedesco Uwe Seeler. Era l'Italia del terzo Governo Fanfani, monocolore democristiano, con l'appoggio esterno dei partiti laici minori e la benevolenza parlamentare di monarchici e socialisti: prove tecniche di centrosinistra. Miracolo economico al suo apice. Spensieratezza diffusa e una fiducia assoluta e ingenua in un progresso, che pareva immancabile. Ai jukebox suonano "Nata per me" di Celentano, "Let's twist again" di Peppino di Capri e "Legata a un granello di sabbia" di Nico Fidenco. Degli afflitti di Manchester - i Beatles - ancora nessuna premonizione. Paragonate il testo della canzone di Fidenco a She Loves you (yeah, yeah, yeah) di un anno dopo e capirete come tutto stesse per saltare in aria. L'Inter non vince lo scudetto dal 1954, l'ultimo della presidenza Masseroni. Moratti ha scelto Herrera un anno prima per riportare i colori nerazzurri al successo che manca da troppo tempo. Il tecnico argentino è un giramondo, a suo modo colto, che capisce prima degli altri l'importanza di una preparazione atletica adeguata allo sforzo e ai gesti del calcio. Sa adattarsi e si adatta. Arrivato a Milano con la fama di allenatore spregiudicato, alla ricerca di tanti gol, scopre il catenaccio e lo porta alla perfezione. Anche narrativa, perché Herrera è un affabulatore - per i detrattori un imbonitore di piazza - e un narratore eclettico e seduttivo. Allena la mente dei calciatori. Li motiva e li esalta fino alla trasfigurazione agonistica. Gli manca ancora un leader tecnico, perché quello caratteriale all'Inter c'è già ed è Armando Picchi. Il libero!

Luisito Suarez

E così chiede e ottiene l'ingaggio di Suarez, classe 1935, dieci e stella del Barcellona e della Spagna. Un regista a tutto campo, duro nei contrasti, intenso nella corsa, tatticamente onniveggente, tecnicamente superbo. I suoi lanci per 40, 50, anche 60 metri, innescano i contropiede micidiali e proverbiali di Mazzola e di Jair. I suoi cambi di campo suggeriscono le discese mai viste di Facchetti. I suoi filtranti attivano il genio sonnolento di Mariolino Corso. Il marchio di fabbrica di quella che diventerà la Grande Inter: laboratorio di un calcio rapidissimo e verticale che si arrampica sul tetto del mondo. Un'icona degli anni '60. Tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin (Tagnin), Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò (Milani, Domenghini), Suarez, Corso: formazione appresa da mio padre e mai più scordata. Squadra immortale, che gira tutta intorno a Suarez. Fantasioso direttore d'orchestra, capace di valorizzarne tutti i solisti. Un moltiplicatore di talento. Luisito  Suarez. Mancato oggi a 88 anni. Ma resterà per sempre. La terra gli sia lieve.


lunedì 17 maggio 2021

I migliori ciclisti colombiani della storia

Propongo una classifica a punti dei migliori ciclisti colombiani della storia Il primo è attualmente Nairo Quintana. La soglia di rilevanza è fissata in 400 punti. Classifica aggiornata al 12 settembre 2022.

  • Tour de France:                                            


 1. 350 punti 2. 200 punti 3. 150 punti 4. 120 5. 100 6. 80 punti 7. 70 8. 60 punti 9. 50 punti 10. 40 punti                        

    • Giro d'Italia:


    1. 300 punti 2. 150 punti 3. 100 punti 4. 80 punti 5. 70 punti 6. 60 punti 7. 50 punti 8. 40 punti 9. 30 punti 10. 20 punti    



    • Vuelta a Espana:



    1. 200 punti 2. 100 punti 3. 80 punti 4. 70 punti 5. 60 punti 6. 50 punti 7. 40 punti 8. 30 punti 9. 20 punti 10. 10 punti    



    • Campionato del mondo:



    1. 100 punti 2. 70  punti 3. 60 punti 4. 50 punti 5. 40 punti 6. 30 punti 7. 20 punti 8. 10 punti 9. 8 punti 10. punti    



    • Classiche "monumento" (Milano - Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi - Roubaix, Liegi - Bastogne - Liegi, Giro di Lombardia) e Giro della Svizzera:

    1. 60 punti 2. 54 punti 3. 48 punti 4. 42 punti 5. 36 punti 6. 30 punti 7. 24 punti 8. 18 punti 9. 12 punti 10. 6 punti      


    • Campionato nazionale, Classiche internazionali (Freccia Vallone, Amstel Gold Race, Clasica di San Sebastian, Campionato di Zurigo, Parigi - Tours, Gand - Wevelgem, Olimpiadi):


    1. 50 punti 2. 40 punti 3. 30 punti



    • Brevi corse a tappe di maggior prestigio (Tirreno - Adriatico, Parigi - Nizza, Giro del Delfinato, Midi Libre, Giro di Romandia, Giro dei Paesi Baschi, Giro del Trentino, Bicicletta Basca, Vuelta a Burgos, Giro di Catalogna, Giro del Mediterraneo, Giro del Belgio, Vuelta a Murcia, Vuelta a Levante -Comunità Valenciana-, Giro di Danimarca, Criterium International, Giro di Gran Bretagna, Settimana Ciclistica Lombarda, Giro di Aragona, Giro della Comunità Valenciana, Giro dell'Algarve, Tour du Haut Var, Giro del Lussemburgo, Quattro Giorni di Dunkerque, Giro dell'Andalusia):


    1. 40 punti

    • Classiche del calendario italiano e classiche minori del calendario internazionale (Tre Valli Varesine, Coppa Agostoni, Coppa Bernocchi, Milano - Torino, Giro del Veneto, Giro del Piemonte, Giro del Friuli, Giro dell'Appennino, Giro del Lazio, Giro dell'Emilia, Trofeo Matteotti, Gran Premio Industria e Commercio, Giro di Toscana, Gran Premio Città di Camaiore, Coppa Sabatini, Trofeo Laigueglia, Coppa Placci, Gran Premio Beghelli, Strade Bianche, E3 Harelbeke, Freccia del Brabante, Het Volk, Gran Premio di Francoforte, Scheldeprijs, Gran Premio di Vallonia, Gran Premio Primavera, Gren Premio di Montreal, Primus Classic, Attraverso le Fiandre, Ronde Van Limburg, Gran Premio Cantone Argovia):


    
    1. 30 punti


    • Campionati nazionali minori (1. 30 punti, 2. 20 punti, 3. 10 punti)

    • Brevi corse a tappe e *corse di un giorno di minor prestigio (Giro di Slovenia, Giro della Repubblica Ceca, Giro di Sardegna, Route du Sud, Giro dell'Algarve, Giro dell'Irlanda, Giro delle Asturie, Settimana Catalana, *Escalada a Montjuic, * Vuelta a la Rioja, Giro dell'Austria, Giro del Qatar, Giro del Portogallo, Tour Down Under, Vuelta a Colombia, Giro di Polonia) 
    1. 25 punti
    • Vittorie di tappa nei grandi giri nazionali (Tour de France, Giro d'Italia e Vuelta a Espana):


    per ogni vittoria al Tour: 15 punti
    per ogni vittoria al Giro: 12 punti
    per ogni vittoria alla Vuelta: 10 punti

    1. Nairo Quintana (Colombia): 2.128 punti: 830 punti al Tour de France (due volte secondo, una volta terzo, una volta sesto, una volta ottavo, una volta decimo), 450 punti al Giro d'Italia (una volta primo, una volta secondo), 370 punti alla Vuelta a Espana (una volta primo,due volte quarto, una volta ottavo), 12 punti al Giro di Lombardia (una volta nono), 40 punti alla Vuelta a Murcia (una volta primo), 40 punti al Giro dei Paesi Baschi (una volta primo), 80 punti alla Vuelta a Burgos (due volte primo), 80 punti alla Tirreno-Adriatico (due volte primo), 40 punti al Giro di Catalogna (una volta primo), 40 punti al Giro di Romandia (una volta primo), 40 punti al Giro della Comunità Valenciana (una volta primo), 40 punti alla Haut Var (una volta primo), 50 punti alla Route du Sud (due volte primo), 30 punti al Giro dell'Emilia (una volta primo), 30 punti per vittorie di tappa al Tour (due vittorie di tappa), 36 punti per vittorie di tappa al Giro (tre vittorie di tappa), 20 punti per vittorie di tappa alla Vuelta (due vittorie di tappa)

    2. Rigoberto Uran (Colombia): 1.233 punti: 370 punti al Tour de France (una volta secondo, una volta settimo, una volta ottavo, una volta decimo), 400 punti al Giro d'Italia (due volte secondo, due volte settimo), 60 punti alla Vuelta a Espana (una volta settimo, una volta nono), 36 punti alla Liegi-Bastogne-Liegi (una volta quinto), 144 punti al Giro di Lombardia (tre volte terzo), 54 punti al Giro della Svizzera (una volta secondo), 40 punti alle Olimpiadi (una volta secondo), 30 punti alla Gran Piemonte (una volta primo), 30 punti al Gran Premio del Quebec (una volta primo), 30 punti alla Milano-Torino (una volta primo), 15 punti per vittorie di tappa al Tour (una vittoria di tappa), 24 punti per vittorie di tappa al Giro (due vittorie di tappa) [carriera ancora in corso]

    3. Egan Bernal (Colombia): 939 punti (2016-) : 350 punti al Tour de France (una volta primo), 300 punti al Giro d'Italia (una volta primo), 50 punti alla Vuelta a Espana (una volta sesto), 48 punti al Giro di Lombardia (una volta terzo), 60 punti al Giro della Svizzera (una volta primo), 40 punti al Giro di California (una volta primo), 40 punti alla Parigi-Nizza (una volta primo), 30 punti al Gran Piemonte (una volta primo), 24 punti per vittorie di tappa al Giro (due vittorie di tappa) [carriera ancora in corso]


    4. Fabio Parra (Colombia): 830 punti (1985-1992): 290 punti al Tour de France (una volta terzo, una volta sesto, una volta ottavo), 410 punti alla Vuelta a Espana (una volta secondo, quattro volte quinto, una volta settimo, una volta ottavo), 30 punti al campionato colombiano (una volta primo), 50 punti al Giro di Colombia (due volte primo), 30 punti per vittorie di tappa al Tour (due vittorie di tappa), 20 punti per vittorie di tappa alla Vuelta (tre vittorie di tappa),

    5. Luis Herrera (Colombia): 756 punti (1985-1992): 250 punti al Tour de France (una volta quinto, una volta sesto, una volta settimo), 40 punti al Giro d'Italia (una volta ottavo), 200 punti alla Vuelta a Espana (una volta primo), 40 punti al Giro del Delfinato (una volta primo), 25 punti al Giro d'Aragona (una volta primo), 100 punti alla Vuelta a Colombia (quattro volte primo), 45 punti per vittorie di tappa al Tour (tre vittorie di tappa), 36 punti per vittorie di tappa al Giro (tre vittorie di tappa), 20 punti per vittorie di tappa alla Vuelta (due vittorie di tappa)


    6. Miguel Angel Lopez (Colombia): 569 punti (2015-) : 80 punti al Tour de France (una volta sesto), 150 punti al Giro d'Italia (una volta terzo, una volta settimo), 170 punti alla Vuelta a Espana (una volta terzo, una volta quinto, una volta ottavo), 60 punti al Giro della Svizzera (una volta primo), 40 punti al Giro di Catalogna (una volta primo), 30 punti alla Milano-Torino (una volta primo), 15 punti per vittorie di tappa al Tour (una vittoria di tappa), 24 punti per vittorie di tappa alla Vuelta (due vittorie di tappa) [carriera ancora in corso]

    7. Esteban Chaves (Colombia): 508 punti (2011-)  : 150 punti al Giro d'Italia (una volta secondo), 160 punti alla Vuelta a Espana (una volta terzo, una volta quinto), 78 punti al Giro di Lombardia (una volta primo, una volta ottavo), 30 punti al Gran Premio Città di Camaiore (una volta primo), 30 punti al Giro dell'Emilia (una volta primo), 36 punti per vittorie di tappa al Giro (tre vittorie di tappa), 24 punti per vittorie di tappa alla Vuelta (due vittorie di tappa) [carriera ancora in corso]





    "Ad honorem" Santiago Botero (Colombia): 390 punti: 250 punti al Tour de France (una volta quarto, una volta settimo, una volta ottavo), 40 punti al Giro di Romandia (una volta primo), 25 punti al Giro di Colombia (una volta primo), 45 punti per vittorie di tappa al Tour (tre vittorie di tappa), 30 punti per vittorie di tappa al Tour (tre vittorie di tappa)

    "Ad honorem" Alvaro Mejia (Colombia): 285 punti (1989-1997):  120 punti al Tour de France (una volta quarto), 50 punti al campionato del mondo (una volta quarto), 10 punti al campionato colombiano (una volta terzo), 40 punti alla Vuelta a Murcia (una volta primo), 40 punti al Giro di Catalogna (una volta primo), 25 punti alla Route du Sud (una volta primo)

    "Ad honorem" Oliviero Rincon (Colombia): 317 punti (1990-1998): 70 punti al Giro d'Italia (una volta quinto), 140 punti alla Vuelta a Espana (una volta quarto, una volta quinto, una volta decimo), 10 punti al campionato del mondo (una volta ottavo), 25 punti all'Escalada Montjuic (una volta primo), 25 punti alla Vuelta a Colombia (una volta primo), 15 punti per vittorie di tappa al Tour (una vittoria di tappa), 12 punti per vittorie di tappa al Giro (una vittoria di tappa), 20 punti per vittorie di tappa alla Vuelta (due vittorie di tappa)


    lunedì 20 aprile 2020

    Tributo a Joaquin Peirò

    Voglio ricordare, a circa un mese dalla scomparsa, Joaquin Peirò, centravanti spagnolo della Grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Già in forza all'Atletico Madrid, poi sarebbe andato alla Roma, titolare saltuario della nazionale spagnola, giocò nell'Inter dal 1964 al 1966. Gli ultimi anni del boom economico italiano. Di cui l'Inter divenne manifesto proverbiale, come proverbiale sarebbe diventata la sua formazione di Coppa, Peirò giocava solo in Coppa perché in campionato c'era posto solo per due stranieri in campo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Questa squadra, dalla difesa impenetrabile sotto il governo astuto e carismatico del capitano Armando Picchi, era un prodigio di verticalità e di ermetismo calcistico. Tre, quattro passaggi, per ribaltare l'azione e andare a rete. Contropiede fulminei, il lancio di Suarez, lo scatto di Jair o di Sandro Mazzola. Ma, non era solo questo. Perché c'era anche il ciondolare di Mariolino Corso, dal magico sinistro, finta ala, che inventava gioco sulla trequarti e c'erano le progressioni, mai viste prima, del tonitruante Facchetti, terzino ma anche ala, che Brera avrebbe voluto persino centravanti. Il centravanti, invece, in Coppa, era Peirò, rapido, tecnico, svelto. L'Inter campione d'Europa in carica, il 4 maggio del 1965 gioca le semifinali d'andata a Liverpool. Soffre l'atletismo inglese, sostenuto da un tifo pazzesco e perde 3-1: gol della bandiera, e della speranza, di Mazzola. Il 12 maggio, c'è il ritorno. San Siro, non ancora intitolato a Meazza, che è vivo e vegeto, è stracolmo. Una punizione a foglia morta di Corso sblocca il risultato. Raddoppia proprio Peirò, che ruba palla al portiere in palleggio, di sinistro, e segna di destro. Il Liverpool protesta, ma il gol è valido. Sarà poi Facchetti a segnare il gol del 3-0, e della qualificazione, dopo irresistibile discesa. La rete di Peirò diverrà il simbolo di quella rimonta dell'Inter, che poi batterà in finale il Benfica di Eusebio, con gol di Jair. 
    File:Joaquín Peiró - FC Internazionale 1964-65.JPG - Wikipedia
    Joaquin Peirò

    giovedì 9 gennaio 2020

    Sfida scudetto Inter-Juve. Sei volte ha vinto l'Inter

    Duello al vertice tra Inter e Juve nella serie A 2019/20. Con molti precedenti, sebbene datati, nella storia del calcio italiano. Nel 1938, l'Inter, Ambrosiana-Inter come allora si chiamava, guidata dall'estro impareggiabile di Giuseppe Meazza, conquistò il suo quarto scudetto, battendo in volata la Juve. Lo stesso sarebbe accaduto nel 1953 e nel 1954, con l'Inter di Foni, nel 1963, con il primo titolo di Herrera, nel 1980, con Bersellini e poi nel 2009, quando l'Inter di Mourinho vinse con ampio margine. Vediamo come andrà a finire in questa stagione il derby d'Italia per lo scudetto.

    lunedì 29 aprile 2019

    Storia del ruolo del libero: il catenaccio

    1. Il catenaccio è, oggi, il più disprezzato e incompreso sistema di gioco nel calcio. Eppure ha dato frutti copiosissimi, specialmente alle squadre italiane. Nato in Svizzera, negli anni '30, dietro l'intuizione del tecnico austriaco Karl Rappan, che tolse uno dei tre attaccanti, per aggiungere un battitore libero, che agisse dietro i difensori, rimediasse ai loro errori, sapesse leggere le traiettorie e spazzasse l'area di rigore, il catenaccio fu perfezionato in Italia, da Viani, alla Salernitana. Per raggiungere vette di eccellenza con Nereo Rocco, al Milan, ed Helenio Herrera, all'Inter, che vi si convertì dopo essere giunto in Italia con la fama di spregiudicato offensivista: il suo Barcellona, illuminato dal genio di Suarez, che poi volle all'Inter, e Kubala, faceva gol a grappoli e batteva in campionato il Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni consecutive. Capì, da noi, quanto importante fosse la difesa e, più ancora, la fase difensiva. L'Italia, di Coppe dei Campioni, se ne aggiudicò quattro negli anni '60, 2 con il Milan e 2 con l'Inter, con squadre attrezzate per difesa e contropiede, sebbene anche ricche di estro e di giocatori estrosi. E il catenaccio, che nel libero aveva la propria pietra d'angolo, divenne decisivo e proverbiale e, secondo alcuni, Brera su tutti, didascalico di una vocazione nazionale.
    2. Il libero, dicevo, è stato, checché ne dica la vulgata dispregiativa, una delle ultime grandi invenzioni della tattica calcistica. Armando Picchi fu il primo grandissimo interprete del ruolo. Studiato dappertutto, come dappertutto fu studiato il modo di giocare di Facchetti, primo terzino sinistro capace di attaccare come un'ala e di segnare come un centravanti. Picchi aveva a lungo giostrato da terzino, con esiti buoni ma non memorabili. Divenuto libero, il suo carisma, la sua acutissima intelligenza calcistica, la sua innata capacità di posizionarsi dove il pallone sarebbe finito o potuto finire, la sua pulizia di battuta, ne fecero il perno della Grande Inter, capace di resistere indenne agli assalti dei migliori attacchi del tempo. I tedeschi, che criticano gli italiani, ma nel fondo li ammirano fino alla gelosia, furono i primi in Europa ad abbracciare la nuova filosofia. Franz Beckenbauer, ch'era stato centrocampista grande, divenne libero sommo. Conferendo al ruolo le peculiarità della sua maestria tecnica e della sua esuberanza atletica. Non solo chiudeva in ultima battuta, ma usciva dalle situazioni più intricate palla al piede, lanciava o scambiava con i centrocampisti, spesso arrivando a liberare il suo gran tiro. Elegante e comandante. Il Kaiser. E nacque il libero alla tedesca. Stielike e Sammer avrebbero giocato come lui. Nati centrocampisti. Anche Schuster, Thon e Matthaus avrebbero chiuso la carriera da liberi. Alla tedesca. La rivoluzione di Beckenbauer avrebbe ispirato un'interpretazione più offensiva del ruolo anche in Italia. Scirea, tecnicamente superiore, Franco Baresi ma anche Graziano Bini sarebbero stati liberi eleganti e primi registi della squadra. Nello stesso periodo, in Argentina, Daniel Passarella, al netto delle durezze tipiche del suo calcio, avrebbe fatto il libero a quel modo, grazie ad un sinistro chirurgico. Ancora ai mondiali del 1982, tanto per dire, le punizioni erano una sua privativa, sebbene con lui giocasse il giovane Maradona. Stesso di discorso per il cileno Figueroa, leader della difesa e della squadra, uno dei migliori giocatori del mondo in assoluto degli anni '70, e per Krol, che nato terzino sinistro nell'Ajax e con l'Olanda, da libero incantò nella seconda parte della carriera e fu un idolo della tifoseria del Napoli nei primi anni '80.
    3. Il catenaccio entrò in crisi alla fine degli anni '80, con il sacchismo, avendo invece resistito alla rivoluzione del calcio posizionale degli olandesi degli anni '70. Si passò alla difesa a zona, all'affollamento in mezzo al campo, al fuorigioco sistematico, al fallo tattico, al pressing ossessivo. Soprattutto, si abdicò al calcio verticale. Ed entrò in crisi anche il ruolo di libero. Come entrò in crisi il ruolo del n. 10, del giocatore di classe e fantasia, di cui non si tolleravano più le pause. I calciatori si trasformarono in qualcosa di molto vicino ai culturisti. Diminuì la cifra tecnica complessiva. Il gioco si velocizzò moltissimo. L'ultimo esempio di grande libero vincente, fu, nell'Inter di Simoni, Beppe Bergomi: lo storico capitano nerazzurro già grandissimo terzino destro-marcatore, che si era disimpegnato anche a sinistra, con Hodgson, e da stopper, all'occorrenza, divenne il perno difensivo di una squadra, illuminata dal talento futurista di Ronaldo da Lima, capace di vincere la Coppa Uefa e di sfiorare uno scudetto, che, sul campo, avrebbe meritato: anno di grazia 1998.


    martedì 25 novembre 2014

    Arrivederci ad Aurelio Milani, centravanti della Grande Inter

    E' mancato Aurelio Milani, centravanti della Grande Inter di Helenio Herrera e di Angelo Moratti. Possente ed acrobatico, Milani fu anche capocannoniere, con la Fiorentina, a pari merito con Altafini, all'esito della stagione 1961-62. Giunse all'Inter nel 1963, in tempo per vivere le irripetibili avventure europee di una delle squadre più forti di sempre. Segnò un gol meraviglioso, al Prater di Vienna, nella finale di Coppa dei Campioni del 1964, contro il Real Madrid di Di Stefano e Puskas (gli altri due gol nerazzurri, nel 3-1 finale, furono del giovane Sandro Mazzola): Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Che la terra gli sia lieve.

    venerdì 30 novembre 2012

    Elzeviro: 2. Sandro Mazzola, immenso fuoriclasse

    Con qualche giorno di ritardo, giunge un tributo a Sandro Mazzola per i suoi 70 anni. Bandiera dell'Inter, primo asso, assieme a Rivera e Riva, di statura internazionale, dopo la strepitosa generazione degli anni '30, Sandro Mazzola, che Brera per sintesi chiamava Mazzandro, è stato tra i pochi calciatori capaci di uscire dalla dimensione del campo di gioco e dei quotidiani sportivi, per entrare in quello che la sociologia degli anni '60 chiamava, con non poca enfasi, "immaginario collettivo". Predestinato, figlio di padre illustre, Valentino Mazzola, capitano del Grande Torino, tragicamente scomparso a Superga nel 1949, Sandro Mazzola seppe farsi strada tra lo scetticismo di tanti, che in lui volevano vedere il giovane raccomandato dalla fama paterna. All'Inter lo volle Benito Lorenzi, il rapidissimo attaccante toscano, terrore delle difese avversarie, che del padre era stato amico ed ammiratore. Esordì in serie A alla fine della stagione 1960/61, diciotto anni e mezzo, contro la Juventus. L'Inter per protesta schierava la formazione primavera e Mazzola segnò il gol della bandiera su rigore. Si riaffacciò in prima squadra, per diventare titolare, nella stagione 1962/63, quella del primo scudetto firmato Helenio Herrera ed Angelo Moratti. Non uscì più di squadra fino al 1977, quando si ritirò. Nel mezzo quattro campionati, due Coppe dei Campioni, con la folgorante doppietta al Real Madrid al Prater di Vienna nel 1964, due Coppe Intercontinentali. Fu centravanti, velocissimo, scattante, dal tiro saettante ed improvviso, eseguito con anticipo di movimento, dal dribbling agile e fulmineo, fu mezzala destra di primissimo ordine, costretto in nazionale a contendere il posto a Rivera, ch'era diverso da lui, dando vita ad una delle rivalità più celebri e letterarie della storia dello sport italiano, ala destra alla fine della carriera. Gol meravigliosi, come quello eseguito dopo infiniti palleggi in nazionale contro la Svizzera. Rispettato in tutta Europa, in tutto il mondo. Nove volte candidato al Pallone d'oro, dove fu secondo nel 1971, campione d'Europa nel 1968, vicecampione del Mondo nel 1970. Il suo stile di gioco divenne proverbiale, come proverbiale era stato lo stile, diversissimo, del padre. Quando si pensa alla storia degli anni '60, il nome di Sandro Mazzola si fa subito, tra i primi. Ecco dieci gol tra i suoi più belli.

    giovedì 2 febbraio 2012

    Calcio: quanto conta un allenatore?

    Conta molto un allenatore di una squadra di calcio. Nel bene e nel male. Perché, di là dalla tattica da sempre sopravvalutata, decide chi gioca e chi no, ma, sopratutto come un giocatore deve giocare, in quale ruolo, quanto tempo, con quale libertà. E, da quando ci sono le sostituzioni, disattendere un ordine della panchina può costare caro, già a partita in corso. Sandro Mazzola ama raccontare che una volta, ancora giovane, Herrera gli chiese di giocare centravanti, nel ruolo che l'avrebbe consacrato asso della Grande Inter e simbolo del calcio italiano, ma, Mazzola era stato nelle giovanili centrocampista e tale si sentiva. Così giocò, e bene, a centrocampo. Primissimi anni '60, le sostituzioni non erano ancora possibili, Mazzola giocò tutta la partita. Herrera si congratulò per la prova, ricordandogli, però, che da quel momento in poi avrebbe dovuto agire da punta. Oggi, non sarebbe possibile. Ci sono allenatori che sostituiscono anche un subentrato: Capello l'ha fatto più di una volta. Il potere di un tecnico, oggi, è notevolissimo. Certo, c'è tecnico e tecnico. Trapattoni trasformò Matteoli da trequartista incostante a grande regista difensivo nell'Inter dei record, come Berti da ala destra, doppione di Bianchi, in formidabile interno assaltatore. Zeman fece di Totti un grandissimo atleta, spianandogli una carriera leggendaria. Mazzone tolse Pirlo, lento sul passo, da dietro le punte, e ne fece un sontuoso architetto del gioco. Tutto questo nel bene. Altre volte, l'allenatore sbaglia e chiede, pensate a Roberto Baggio con Ulivieri, di coprire come un mediano, salvo ravvedersi alla fine, oppure, pensate sempre a Roberto Baggio con Lippi, tiene l'asso in panchina per fare spazio a Nello Russo. Insomma, l'allenatore conta eccome. A condizione che metta ogni giocatore nella condizione di rendere al meglio. Ci riuscirà Ranieri con Sneijder?